L’assalto al Campidoglio è solo l’ultimo capitolo di divisioni profonde che vengono da lontano e sono state approfondite dall'utimo presidente. La crisi americana vista dalla storica Jill Lepore

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«La perdita di vite umane in questo gennaio non è paragonabile ad altri giorni della storia degli Stati Uniti: il 7 dicembre 1941, quello dell’attacco giapponese a Pearl Harbor che fu definita da Franklin Delano Roosevelt «una data che vivrà nell’infamia», e l’11 settembre 2001, quello degli attacchi terroristici a New York e Washington.

Tuttavia, poiché il Campidoglio degli Stati Uniti non è più stato invaso dalla guerra del 1812 con la Gran Bretagna e l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 lo hanno portato avanti cittadini statunitensi nel tentativo di rovesciare i risultati di un’elezione libera ed equa, l’evento è senza paragoni. È stato, indubbiamente, uno dei giorni più bui della storia americana». Jill Lepore, docente di Storia americana all’università di Harvard, collaboratrice del New Yorker, ha raccontato nel suo libro “Queste verità” (Rizzoli) la lunga vicenda degli Stati Uniti come il tentativo di tenere insieme una nazione percorsa da divisioni, fratture, odi razziali, una sanguinosa guerra civile. E al tempo stesso la fragilità e la forza della democrazia americana.

Le elezioni del 3 novembre sono state le più partecipate della storia, con oltre 150 milioni di votanti. Biden ha preso 81 milioni di voti, Trump 74 milioni. Sono anche le più divisive: quali sono le cause di questa lacerazione e quali le conseguenze di lungo periodo?
«I risultati delle elezioni presidenziali hanno spesso margini molto stretti. Oggi i cittadini statunitensi sono divisi quasi a metà. Ma la novità non è la divisione, è l’odio, l’inconciliabilità tra i due campi. I due partiti, democratico e repubblicano, hanno cominciato a spostarsi verso i poli dello spettro politico attorno al 1968, da allora il divario ha continuato ad allargarsi. È una polarizzazione asimmetrica, in cui i repubblicani hanno continuato a spostarsi molto, molto a destra, mentre i democratici si sono spostati a sinistra, ma non tanto quanto i repubblicani. Per molti aspetti, il cambiamento è stato contrassegnato anche da una riorganizzazione non solo ideologica (il partito repubblicano è diventato più conservatore, i democratici sono diventati più liberali), ma anche di appartenenza razziale. Il partito repubblicano ha attratto sempre più bianchi, quello democratico sempre più persone di colore».
Jill Lepore

Joe Biden ha detto che la democrazia americana sta attraversando la fase più difficile, ha parlato di “tenebre”. Per quali ragioni? Può riuscire la missione che si è assegnato per il suo mandato: la ricucitura di un Paese spaccato e spaventato dalla pandemia?
«Il Paese si presenta con un volto molto buio. Stranamente, questo è un punto su cui, sospetto, la maggior parte degli americani sarebbe d’accordo. Il bilancio della pandemia è spaventoso. L’economia è disastrata. Le persone hanno perso la casa, il lavoro, i loro cari. Sono pandemiche anche l’ingiustizia economica e razziale. E ci aspetta altra sofferenza sotto forma di catastrofi climatiche. Ovviamente, le persone in tutto il mondo stanno soffrendo per queste stesse cause e in molti luoghi molto più gravemente. Gli americani hanno anche assistito al decadimento delle proprie istituzioni politiche fondamentali. I trasferimenti di potere politico sono tutti stati pacifici dalla fondazione della Nazione. Qualcuno con un po’ di attrito, altri non perfettamente lisci, ma quanto è successo quest’anno è qualcosa di completamente nuovo per gli americani: terrificante e, sì, buio».

Trump chiude la presidenza nel discredito: a rischio destituzione, non parteciperà alla transizione dei poteri, espulso da Twitter e Facebook. Gli Usa negli ultimi sessant’anni hanno vissuto il trauma di un presidente ucciso (Kennedy) e di uno costretto a dimettersi (Nixon). Che effetto avrà questo addio traumatico sulla coscienza americana?
«Kennedy è stato assassinato da un sicario solitario; Nixon era un brutto personaggio. La caduta di Trump non riguarda solo Trump: la caduta di Trump rappresenta il decadimento del partito repubblicano e delle stesse istituzioni democratiche della Nazione. Deve essere sottoposto al processo di impeachment in modo che non possa mai più candidarsi. Ciò che serve per fare guarire le istituzioni dai danni inflitti è che molti più repubblicani di quanti non l’abbiano fatto finora rinneghino e denuncino Trump. Non bisogna dimenticare: anche dopo che i terroristi armati avevano invaso e occupato il Campidoglio per interrompere la certificazione delle elezioni, ben centotrentotto membri della Camera, e un pugno di senatori repubblicani, hanno insistito nel voler ribaltare i risultati delle elezioni con il loro voto per la certificazione. La strada per tornare a una democrazia funzionante è molto lunga».

Quanto è diffuso l’estremismo dei sostenitori di Trump? Che effetto ci sarà sul partito repubblicano? È possibile la spaccatura tra moderati attratti dall’amministrazione Biden e un nuovo partito di destra guidato da Trump?
«Agli americani che hanno votato per Trump non piace la piattaforma del partito democratico. Sono in gioco molte differenze politiche legittime, anche se si perdono dietro alla cortina dell’estremismo. Qualche decennio fa, con Newt Gingrich negli anni ’90, un certo numero di repubblicani conservatori decise che per vincere le elezioni e sconfiggere i democratici era necessario trasformare la politica in una guerra santa. Gingrich accuso i democratici di bestialità. Bestialità! QAnon non nasce dal nulla. Molti repubblicani, sospetto, vorrebbero cacciare il trumpismo dal partito e, sì, sarebbero molto felici se potessero effettivamente confinarlo a un partito marginale destinato a non durare. Non so se siano in grado di farlo».

Che ruolo avrà la sinistra dei democratici, che è stata indispensabile nella mobilitazione elettorale ma sacrificata nelle nomine della nuova amministrazione?
«Biden vorrebbe guidare un governo di unità nazionale. O, almeno, questo è quello che aveva intenzione di fare quando è stato eletto. La violenta insurrezione incitata da Trump rende questa strada molto più difficile. Non credo che Biden abbia sacrificato o abbandonato la sinistra. Penso, invece, che l’insurrezione abbia dato alla sinistra più autorevolezza: la loro argomentazione - non si può scendere a compromessi con i repubblicani perché di base non credono nemmeno più nella democrazia - è stata molto rafforzata dalle persone che hanno assalito il Campidoglio».
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Il 2020 ha allargato nella società americana anche il solco delle spaccature tradizionali: gli afroamericani, le donne, le grandi città contro le campagne. Lei ha scritto che la democrazia americana è una “democrazia dei numeri”, ha sempre cercato nelle sue regole di rappresentare tutte le anime della Nazione e al tempo stesso di trovare meccanismi che impedissero la disgregazione. È ancora possibile farlo?
«Va detto: gli Stati Uniti non hanno cercato “sempre” di rappresentare tutto il suo popolo attraverso una rappresentanza proporzionale. Quel regime di conteggio, di “numeri”, iniziò con il compromesso su tre quinti alla Convenzione Costituzionale nella quale i delegati accettarono di contare le persone tenute schiave in ragione di tre quinti di una persona libera. Cominciò contestualmente con il sistema del collegio elettorale che concedeva un potere politico sproporzionato agli stati schiavisti. Fare in modo che ogni voto contasse, il voto di ogni cittadino americano, è stata la lunga battaglia della storia politica americana. È una lotta incompiuta».

Lei cita Walter Lippmann: «In uno Stato moderno le decisioni nascono non dall’interazione tra il Congresso e l’esecutivo, ma tra l’esecutivo e l’opinione pubblica». Quanto pesano i media in questa vicenda? Per Trump la sconfitta elettorale è una costruzione dei media che gli sono ostili. QAnon pensa a un complotto globale. Al tempo stesso Twitter e Facebook espellono Trump dai social. È l’impossibilità di un dibattito pubblico, con una verità condivisa?
«Negli Stati Uniti, come in gran parte del resto del mondo, siamo nel mezzo di una crisi epistemologica. Le persone credono a una autorità a seconda di chi sono. Negli Stati Uniti, questa è in parte la conseguenza di decenni di attacchi conservatori alle istituzioni che arbitrano la conoscenza: università, giornalismo e sistema giudiziario. Il governo federale ha abdicato quasi del tutto al proprio ruolo di garante della libertà di espressione e di promotore di relative norme eque, norme come quelle che regolarono l’era della trasmissione via radio e via televisione dagli anni ’20 agli anni ’70. In giro ora c’è il caos. Questo deve cambiare».

Dal 20 gennaio la democrazia americana, modello per tutti i Paesi occidentali e europei, sarà più forte o più fragile?
«Mi aspetto davvero che il 20 gennaio la democrazia americana sarà più forte di quanto non lo sia stata fino al 19 gennaio. Ma mi chiedo anche: sarà più forte di quanto non lo fosse prima dell’8 novembre 2016, quando fu eletto Trump? Non credo proprio. Il prezzo pagato in questi quattro anni è stato molto alto».