Intervista
Fausto Bertinotti: «Quando hanno sostituito il Palazzo d'Inverno con Palazzo Chigi è finita la storia del Pci»
La scintilla della rivoluzione russa è stata rinnegata per governare a tutti i costi. L'ex segretario di Rifondazione ricorda, racconta, rimpiange. E distribuisce stroncature
Cosa resta? «Rimane quel sentimento che Biagio De Giovanni chiama significativamente una malinconia. Una malinconia per quella ricchezza di umanità andata perduta con la sua fine, la storia di quei milioni di uomini e donne la cui vita è cambiata grazie a quelle lotte, come cantava Giorgio Gaber: “Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”. Perché racconta bene cosa è stato il Pci in Italia: prim’ancora che storia di gruppi dirigenti e strategia è la storia di un popolo, è il quarto stato di Pellizza Da Volpedo in marcia verso il Sol dell’Avvenire». Ecco cent’anni di comunismo italiano secondo Fausto Bertinotti, 81 anni tra pochi mesi, nato a Milano, padre ferroviere socialista e mamma casalinga, già sindacalista, segretario di Rifondazione Comunista, presidente della Camera.
Indiscutibile l’originalità della sua idea di un comunismo post-novecentesco, che guarda ai nuovi antagonismi radicali ma attinge al pensiero socialista e comunista di minoranza che ha attraversato la storia del ’900 (Rosa Luxemburg e Lelio Basso che ne diffuse il pensiero in Italia, Riccardo Lombardi e Rodolfo Morandi, Pietro Ingrao). Un tentativo sinora fallito ma, dice Bertinotti, citando la sua amatissima Rosa: «Questo centenario non può essere celebrato da chi pensa che la verità sia solo nella vittoria, ignorando quanta ne possa contenere la sconfitta, come diceva Rosa Luxemburg».
La cifra bertinottiana è il linguaggio colto (talvolta troppo complesso per la politica di oggi) qualcuno dice confuso e lo vede piuttosto riflesso nella geniale imitazione di Corrado Guzzanti, pieno di erre arrotate, ragionamenti che diventano labirinti surreali senza via d’uscita. Un modo di pensare che, soprattutto dopo che Bertinotti decretò la caduta del governo Prodi nel 1996 è stato oggetto di una vera e propria campagna mediatica: irresponsabile, sfasciacarrozze, mai più con te; fu persino messo in croce - lui, figlio di un ferroviere socialista - perché accusato di essere un aristocratico per via di una gentilezza dei modi e un’eleganza molto sobria e ricercata fatta di colori caldi e maglioni di cachemire («Sono un regalo di amici e comunque me li sceglie Lella», disse riferendosi alla moglie, Gabriella Vago, musa ispiratrice e compagna di una vita).
Senza alcun dubbio se l’era cercata: quello di far cadere la coalizione dell’Ulivo che aveva vinto le elezioni grazie a un accordo di desistenza nei collegi maggioritari con Rifondazione, fu un errore storico, ma certo Bertinotti non fu l’unico a sbagliare. Altrettanto enorme fu l’errore, insolitamente ammesso dallo stesso interessato in un forum proprio qui all’Espresso nel 2001, di Massimo D’Alema, segretario del Pds, che assunse la guida del governo nel 1999 senza passare dalle elezioni e grazie a una manovra parlamentare e ai voti messi insieme dal presidente emerito Francesco Cossiga con i suoi Straccioni di Valmy: «Quale errore ho commesso? Essermi preso la responsabilità della guida del governo dopo la caduta di Prodi. Quell’azzardo ha danneggiato il mio partito e me stesso, perché ci ha fatti diventare il bersaglio di una campagna che ha aperto una ferita».
Un azzardo che provocò, dice D’Alema, una campagna di odio contro di lui: «Mi hanno dipinto come un tramatore, un corrotto, il padrone del Bingo, l’uomo dalle scarpe milionarie. Tutte bugie, si è creata una ferita dentro il centrosinistra dove una parte degli elettori crede alle accuse e l’altra mi offre la sua solidarietà. Vogliono colpire l’uomo invece delle sue idee, questo mi amareggia».
Se cogliete qualche rassomiglianza con circostanza odierne beh, allora avete capito il senso della digressione: la storia della sinistra è talmente piena di scissioni, rientri, controscissioni, rimozione di leader e simboli, deificazione e demonizzazione degli stessi leader nel corso di poco tempo, da far sospettare che nel 1921 si sia insinuato nel Dna della sinistra il vizio dell’anatema. E il moralismo non spiega nulla della crisi di un assetto politico-istituzionale quale quello in cui siano immersi da un ventennio.
Torniamo al racconto di Bertinotti del suo incontro con la politica e il comunismo: «Avevo vent’anni, era il 1960, l’anno del governo Tambroni e della rivolta dei giovani con le magliette a strisce. In piazza incontrammo le organizzazioni tradizionali e leader come Franco Antonicelli, Sandro Pertini. Aderisco al movimento Nuova Resistenza. Poco dopo, nel 1961, mi iscrivo al Psi».
Perito industriale, studia sociologia a Trento ma a un certo punto Bertinotti lascia gli studi per andare a lavorare in Cgil: «Erano tanti i giovani che allora lasciavano gli studi per la politica. Per mesi non avevo stipendio, ci pensava Lella che per fortuna aveva uno stipendio sicuro». Nel 1964 è segretario degli operai tessili di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia dove fa politica anche un giovane Bettino Craxi. Lascia il Psi per aderire al Psiup, poi nel 1972, sciolto quel partito entra nel Pci che lascerà nel 1993 per Rifondazione Comunista.
«Possiamo certo giudicare la storia con il senno del poi, e dire che fu un tragico errore ma la scissione di Livorno era storicamente necessaria», dice Bertinotti. «Se fosse stato un errore della storia come si spiega che da lì sia nato il più grande partito comunista dell’occidente? La scissione porta con sé nel partito nascente la scintilla della rivoluzione. Nella storia del Pci, soprattutto in quella del lungo dopoguerra italiano e nel mondo diviso in due blocchi contrapposti, quella scintilla continuerà a vivere sebbene senza diventare mai la strategia generale del partito. Qui sta la sua doppiezza. La doppiezza esistita nel Pci, che è stata sostanzialmente un’ambiguità non risolta, ha svolto un ruolo positivo. Ha funzionato come lievito alla sua crescita e al suo radicamento nella classe operaia, nel popolo e nella società italiana. Dentro e fuori il Pci è stato così possibile per le realtà impegnate su questo fronte interloquire con tutti i movimenti, con tutti i fruttuosi revisionismi ideologici o culturali, che sono venuti crescendo a partire dagli anni Sessanta, nei marxismi critici, nel femminismo, nell’ecologismo».
La «doppiezza positiva», secondo Bertinotti, muore con il funerale di Enrico Berlinguer che già nel 1980, ai cancelli della Fiat, quando Bertinotti è segretario della Cgil in Piemonte «non vuole la rottura con il polo operaio, e cerca di tornare alla scintilla di Livorno».
Il Pci, dunque, non finisce per il crollo del muro di Berlino, il Pci muore perché con il 1989 muore il ’900: «Non crollano solo i regimi illiberali e autoritari dell’est, ma anche le grandi socialdemocrazie. Guardateli: sono morti che camminano. Il Psf è sparito, il Pd non è “un partito di governo”, ma “il partito del governo”. Un tempo, nella storia della sinistra, il riformismo era un modo diverso, graduale, di conseguire l’obiettivo del socialismo. Di tutto questo oggi non c’è traccia: l’avvento del capitalismo finanziario globale, incompatibile con la democrazia, ha cambiato radicalmente la società e la natura del conflitto sociale, smantellate le istituzioni del movimento operaio e la sinistra ha ridotto la politica a pura governabilità. Il superamento del capitalismo è totalmente fuoriuscito dal suo orizzonte. Ha provato il riformismo dall’alto sia nella versione comunista che in quella socialdemocratica, e ha fallito ma senza quella scintilla nata nel ’17 la sinistra e la politica muoiono riducendosi a pura amministrazione».
Nell’attuale, ennesima, fratricida lotta mortale nella sinistra italiana Bertinotti non vede alcun segno di ripresa di quel filo: «Trent’anni fa, quando finì il Pci, abbiamo discusso e litigato con passione e anche con dolore. Quando oggi vado a salutare uno dei vecchi comunisti che se ne va, non vedo le bandiere rosse ondeggiare nel vento, non sento mormorare il canto dell’Internazionale, e mi commuovo perché capisco che quel vecchio dirigente non ha più eredi. L’assalto al Palazzo d’Inverno andava di sicuro sottoposto al revisionismo promosso dalle nuove frontiere critiche, ma la sua sostituzione con Palazzo Chigi, la sostituzione della rivoluzione con il governo, è andata nella direzione opposta ed è stata la fine di una grande storia. E il governo attuale ne è un riflesso: siamo nella logica dell’amministrazione dell’esistente, ma non comprendo come il rapporto con il M5S possa portare alla ricostruzione di un soggetto politico di sinistra. La radicale critica al capitalismo come civiltà, che è l’essenza del comunismo, vive piuttosto altrove: nella rivolta e persino, se posso dirlo, nelle parole dell’ultima enciclica di Papa Francesco, “Fratelli Tutti”».
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