La sua narrativa feroce e dura aveva poco a che vedere con l’edulcorata e melliflua prosa degli altri. I suoi scritti schizzavano sudore, sangue, sperma, vita, morte. Le sue frasi mordevano, graffiavano, laceravano. Spargevano ferormoni…». “Salvare il fuoco”, Guillermo Arriaga. Ma lei fa dire a un carcerato quel che si dice della sua scrittura?
«No, no», ride con tono affatto convincente lo scrittore e regista messicano - gli occhi azzurri, la barba di una settimana esattamente come i suoi personaggi: «È una delle tante figure inventate a parlare. La mia idea di scrittura la faccio esprimere al protagonista, quando spiega che scrive per una questione di sopravvivenza. Anch’io non sarei mai riuscito a vivere se non avessi avuto la scrittura».
«Scrivere per condividere, per affrontare, per provocare. Scrivere per ribellarsi. Scrivere per riaffermarsi. Scrivere per non impazzire. Scrivere per prendere a pugni. Per sostenere. Per incalzare. Scrivere per non morire tanto. Scrivere per ululare, per abbaiare, per dare morsi, per grugnire. Scrivere per provocare ferite. Per curare. Per espellere, per depurare. Scrivere come antisettico, come antibiotico, come antigene. Scrivere come veleno, come tossina. Scrivere per avvicinarsi. Scrivere per allontanarsi. Scrivere per scoprire. Scrivere per perdersi. Per incontrarsi. Scrivere per lottare. Scrivere per arrendersi. Scrivere per vincere. Scrivere per immergersi. Scrivere per stare a galla. Scrivere per non naufragare. Scrivere per il naufragio. Scrivere per il naufrago. Scrivere, scrivere, scrivere».
Questa è la scrittura per Arriaga: sia che faccia lo sceneggiatore di storie struggenti come “Amores Perros”, “21 grammi”, “Babel” con la regia dell’amico Alejandro Iñárritu, o nostalgici come “Le tre sepolture” con Tommy Lee Jones, sia che i film li diriga lui stesso (“The Burning Plain - Il confine della solitudine”, con Charlize Theron e Kim Basinger, o il drammatico “No One Left Behind”), «sono prima di tutto uno scrittore: i miei film hanno un testo e una struttura da romanziere». Anzi, «un cacciatore che fa lo scrittore». Compulsivo, per di più.
«Appassionato», corregge il termine spagnolo: «Scrivo sempre, ovunque. In taxi, mentre la aspettavo, alle cinque del mattino in una camera d’albergo, in ogni situazione. E non so mai dove mi porti una storia, ogni volta che inizio: scopro i personaggi mentre scrivo, vado dove mi conducono loro. Scrivere es una adicción, una dipendenza», dice l’autore di romanzi tradotti in tutto il mondo come “Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina”, “Un dolce odore di morte”, “Il bufalo della notte” (editi da Fazi), “Il selvaggio” (Bompiani). E da ultimo “Salvare il fuoco”, 850 pagine che hanno appena vinto, con un rarissimo voto unanime della giuria, il Premio Alfaguara 2021, prestigioso riconoscimento al miglior romanzo in spagnolo. In Italia il libro è pubblicato da Bompiani, nella splendida traduzione di Bruno Arpaia. Ed è la storia di una passione tra Marina, donna borghese e madre, coreografa impegnata, decisa a rappresentare in carcere i suoi spettacoli urticanti, e José Cuauhtémoc, assassino col talento della scrittura. Tra i due sarà un corpo a corpo col fuoco.
«Tutto è programmato nella vita, tranne l’amore. In una società come quella messicana molte donne sacrificano l’amore alla stabilità, mettendo da parte se stesse per un matrimonio solido. Ma anche se l’amore è la cosa più pianificata che esista, è capace all’improvviso di sovvertire tutto», dice: «Michel Foucault sosteneva che l’energia più forte e meno controllata fosse il sesso. A me piace l’idea dello psicoanalista austriaco Igor Caruso, secondo il quale l’amore è più sovversivo del sesso». “Salvare il fuoco” è anche un polifonico, multitasking, libro di denuncia: della violenza sulle donne, della ferocia dei narcos, delle discriminazioni verso gli indios, a cui viene sottratta la dignità, a partire dalla lingua natia («l’ultimo baluardo della resistenza di un popolo»). Sorretto da un vigore che trasferisce l’adrenalina dalla pagina al lettore, sferrando ogni tanto cazzotti da togliere il fiato. Ma è inutile schivare ciò che è parte della vita che ci tocca, qui e ora: «E non importa che possiamo perdere tutto, sfiorare la morte, mettere in pericolo chi amiamo: dobbiamo andare avanti. È la vita che si afferma in quanto vita, la vita che torna alla sua forma più primigenia e brutale. La vita per la vita».
È il cacciatore che parla, adesso: a conferma di quanto in questo scrittore singolarissimo istinto, azzardo, rischio provengano da un know how accordato sul mondo animale. Come Amaruq, ragazzo dal destino legato a un lupo, ne “Il selvaggio”.
«La caccia è un rito profondo, doloroso e con una componente sacra. Io mangio per metà dell’anno soltanto quello che caccio io, con arco e freccia. Ho profondo rispetto di quel cibo, perché conosco il dolore che c’è nel sacrificare una vita. In quel tipo di caccia l’animale può fuggire, e salvarsi: la mucca, il pollo, il maiale no. Pensiamoci quando mangiamo. La caccia ti permette di entrare nella natura che è dentro di noi, e di capire meglio la natura umana. Sto leggendo “Il cacciatore celeste” di Roberto Calasso, un capolavoro: mostra come la caccia sia parte della storia dell’umanità. Cacciare aiuta a scrivere, fa comprendere quanto siamo parte della stessa natura. Siamo tutti seduti su un trono di sangue, però: perché il genere umano distrugge. Come scrittore voglio scoprire queste passioni distruttive».
Cresciuto a Città del Messico, nel quartiere Unidad Modelo che ricorre nei suoi libri, «disegnato per essere abitato da giornalisti e da professori, gente che guadagnava poco ma era molto aperta mentalmente», e dove a tredici anni, secondo note biografiche ricorrenti, avrebbe perso l’olfatto facendo a botte in una rissa, Arriaga ha avuto due genitori insegnanti che gli hanno trasmesso l’amore per i libri: «Ricordo quanto sia stato folgorante leggere “La valle dell’Eden” di John Steinbeck. Grande suggestione hanno esercitato in me anche le tragedie di Eschilo, di Sofocle, di Euripide. E i drammi di Shakespeare, letti quando ero davvero un bambino…», ricorda, sorridendo: «Nel barrio c’era un cinema, che per ragioni che non so spiegare mandava film in italiano: Luchino Visconti, ma anche Adriano Celentano e Lando Buzzanca.
L’amore per il vostro cinema è rimasto: Luca Guadagnino, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone sono registi che seguo con grande interesse». Ha studiato teatro a lungo. Ha una laurea in Comunicazione, una in Psicologia all’Universidad Iberoamericana, ha insegnato all’università per molti anni: perché scrive storie che lei stesso definisce rischiose? «Rischioso è scrivere come se fossi una donna. Usare un linguaggio diverso, a seconda che a parlare sia un prigioniero, una puttana, un delinquente, una persona borghese. Se passi cinque anni a scrivere un libro come questo, che nella sua fase iniziale era di 1.400 pagine, è per pura passione. Una gioia assoluta».
Scrive lettere d’amore al suo Paese di continuo, Arriaga: con i film e con i libri. A Città del Messico vive, anche se il suo sogno di trasferirsi in mezzo alla natura, in un ranch che possiede ai confini con il Texas, è sempre più vicino. «Amo il mio Messico con tutte le sue contraddizioni. Del resto, ogni Paese ha il suo punto di rottura: l’Italia col fascismo, la Germania col nazismo, il Messico sta vivendo ora il suo momento più drammatico». Il narcotraffico, la corruzione? Si irrita, Arriaga, sull’immaginario più comune: allinea numeri, stila la classifica dei paesi più criminali («tutti parlano del cartello messicano, e non di quello americano, che è il più grande del mondo»), poi spiega: «La corruzione c’è sempre stata. Ma prima non c’era questo livello di violenza. Però bisognerebbe avere per il proprio Paese lo stesso atteggiamento che si ha verso una donna amata: anche se ci sono in lei aspetti che non ti piacciono, la ami lo stesso». Nel suo amore ricorre la malinconia sconfinata, ma anche la rabbia e la rivolta, per un popolo costretto a migrare, e continuamente, atrocemente, respinto.
Nel suo Messico c’è una frattura cruciale: la distinzione tra chi ha paura e quelli che provano rabbia. Gli esasperati, i rifiutati, i marginali. E quelli che hanno timore di perdere i loro privilegi. È in questo snodo che si inserisce la cultura: con che efficacia? «Mi chiede che ruolo possiamo avere noi, scrittori e artisti con la possibilità di viaggiare e di far sentire la nostra voce. La cultura deve fare domande, e le domande possono promuovere il dialogo. L’arte non può dare risposte; politica e scienza devono farlo, l’arte no. Però l’arte deve porre le questioni giuste. Ed è quello che è successo anche con questo ultimo romanzo: ha fatto parlare di razzismo, ha sollevato riflessioni sul sistema carcerario: siamo proprio sicuri che sia il modo migliore per punire chi ha sbagliato?».
Sono fortissime le pagine nelle quali racconta la reclusione, la dignità oltraggiata, lo sguardo senza orizzonte, il corpo oggetto di castigo. «Non c’è punizione peggiore che rinchiudere il corpo», aggiunge Arriaga: «Non sono cattolico. Non vivo, rispetto al corpo, i tabù degli insegnamenti cattolici. Credo che il corpo produca allegria, dolore, che non termini nel perimetro in cui siamo, ma riguardi anche lo spazio che occupiamo. In carcere il corpo è chiuso in forma brutale e definitiva. Ho ricevuto una lettera, tempo fa, da una persona in un carcere brasiliano che mi diceva di essere il bibliotecario del penitenziario. Era molto legato al mio libro “Il bufalo della notte”. Una frase che mi ha scritto è scolpita dentro di me, come memoria di cosa sia la libertà e di quanto potere abbiano le storie: “Il mio corpo è rinchiuso”, mi ha scritto, “ma la mia mente non lo sarà mai”».