La difficoltà di essere equi nelle recensioni quando si stima un collega oppure si è stati stroncati

Il primo derby d’Italia è storicamente quello tra il mio Torino e l’altra squadra ospitata in città. Ecco. Credo che da queste mie pacate parole potrete intuire quali siano l’imparzialità e la serenità di giudizio con cui mi rapporto a quella società, ai calciatori che stipendia e pure a chi li allena. Del resto sono un tifoso, non uno sportivo, benché sportivamente tifi non solo per il Torino ma per tutte le squadre che di volta in volta, dentro o fuori i confini nazionali, incontrano l’Innominabile: e da tifoso non sono chiamato a tenere l’equidistanza che compete – o dovrebbe competere, trattandosi appunto dell’altra squadra – innanzitutto a un arbitro, ma anche a un cronista sportivo di quelli che danno i voti in pagella ai giocatori. Già, i voti in pagella. Per restare ancora un attimo al calcio, prima di passare alla letteratura: pensate se a dare i voti in pagella ai giocatori fossero i giocatori stessi. Belotti che giudica Chiellini dopo aver fatto a sportellate con lui per vincere il derby, e viceversa…

È per questo motivo che quando dopo l’uscita del mio romanzo d’esordio “Tutti giù per terra” ricevetti proposte di collaborazione prima dalla Talpa del manifesto e poi da Tuttolibri della Stampa risposi che avrei scritto solo di autori stranieri. Così, per quanto riguarda la narrativa, in tanti anni ho scritto – non in veste di critico, perché non sono un critico, ma di lettore prima ancora che di autore – soltanto di due italiani: però morti (Tondelli e Bianciardi). La sola eccezione che abbia confermato la regola è stata Arbasino, quand’era ancora tra noi. Da Mostro Sacro qual è, non lo consideravo certo un collega, e tantomeno un diretto concorrente. Perché siamo onesti: con quale imparzialità potrei giudicare l’opera dei miei colleghi e diretti concorrenti? Non credo sarei capace di non essere gramscianamente partigiano nei confronti di coloro che stimo, con cui condivido una certa idea di letteratura e forse ho perfino rapporti d’amicizia; e come farei a essere equo se mi venisse chiesto di recensire il libro di chi magari in precedenza mi aveva stroncato?


Quando su queste pagine ho letto la presa di posizione di Roberto Cotroneo (in breve: in Italia non ci sono veri scrittori) e la replica di Antonio Moresco (in breve: in Italia il solo vero scrittore sono io) più l’intervento di Massimiliano Parente (in breve: in Italia chi si dice scrittore è nella maggior parte dei casi un impiegato in lotta per lo Strega, e per questo fa parte di salotti e camarille; a Parente sono grato per avermi annoverato tra i veri scrittori, ma ecco: mi chiedo come farei ora a essere imparziale con chi ha partecipato a questa disputa) mi è venuto per l’appunto da pensare al calcio, che peraltro seppure in crisi ha com’è noto un giro d’affari e premi in palio un po’ più alti rispetto al dorato mondo delle lettere italiane (e dato che la torta è piccola, anche per questo tendenzialmente ci si scanna).


L’altra cosa a cui ho pensato è il tempo. «Il faut d’abord durer», sosteneva Hemingway, convinto che solo col metro del tempo fosse lecito giudicate le opere. D’altronde, che cosa fa di un libro un classico? Se ancora oggi leggiamo Conrad o Céline – con buona pace di chi dopo il #metoo e BLM vorrebbe una letteratura politicamente corretta ed educativa, cosa che metterebbe fuori gioco tra gli altri non solo De Sade ma anche Dostoevskij, vista l’empatia che proviamo da lettori nei confronti di Raskol’nikov – che al contrario di molti hanno scritto libri fondamentali ancorché ambigui e disturbanti (due caratteristiche che sarebbe un peccato sottrarre alla letteratura) è perché i loro libri hanno saputo arrivare fino a noi.

 

E dunque: chi di noi rimarrà? Chi di noi avrà scritto opere capaci di durare più di un annetto in cima alle classifiche di vendita? Quanti di coloro che vincono premi anche prestigiosi verranno letti tra uno o più secoli, ammesso che qualcuno leggerà ancora (da parte mia non sono pessimista sul futuro del romanzo o della lettura, ma su quello della nostra Specie sul pianeta che per ora ci ospita)? Ciò detto, va preso atto che neppure il tempo – malgrado abbia reso giustizia a Melville o Fitzgerald, dimenticati in vita e rivalutati post mortem – è un giudice davvero affidabile: sennò Morselli e D’Arrigo, due scrittori veri citati da Parente, avrebbero ancora e per sempre milioni di lettori.


Non se ne esce, dunque? A quanto pare no. Ci sono tuttavia un paio di altre cose che varrebbe la pena di menzionare. Innanzitutto, il ruolo della critica letteraria. Per noi nati nel Novecento, era materia di studio all’università: ricordo con affetto il professor Angelo Jacomuzzi, che mi fece scoprire ciò che delle opere di Eugenio Montale aveva scritto Gianfranco Contini, e il carteggio tra i due. Fu grazie a Contini se all’epoca compresi Montale.

 

Che fine ha fatto oggi la critica letteraria? I critici autorevoli non mancano, anche se più d’uno a cominciare da Cotroneo ha comprensibilmente ceduto alla tentazione autoriale del romanzo. Ma quale impatto hanno sui lettori le recensioni che escono sulle pagine culturali o in rete? Fino a che punto è vero il luogo comune secondo cui ormai “ci leggiamo solo tra noi”? E che dire del fatto che oggi valgono di più la foto di un libro postata su Instagram da una cosiddetta influencer o un video su TikTok capace di diventare “virale” rispetto alla copertina dell’Indice dei Libri del Mese?

Qui entrano in gioco i meccanismi che oggi regolano l’industria del libro. Perché, sempre in fatto di tempo, ormai nella stragrande maggioranza dei casi i libri durano quando va bene lo spazio di un mese, e a partire da questa consapevolezza vengono “lavorati” (non solo dai vari uffici stampa); e, last but not least, perché chi in questo nostro disgraziato presente arriva a sostenere un colloquio di lavoro in una casa editrice anche prestigiosa si sente chiedere, testuali parole: «Lei chi segue su Instagram? Avrebbe qualche nome da segnalarci?». Già. Sic transit gloria mundi.