Monologhi, appunti, note. “A questo poi ci pensiamo” riunisce testi mai pubblicati dello sceneggiatore e regista scomparso. Per tornare a commuoverci, stupirci, ridere. Col suo sguardo brillante e impietoso

Vicino a Castel Sant’Angelo, un piccione attraversa la strada. La attraversa a piedi. Questo non stupirebbe più di tanto: nella capitale molti piccioni hanno ormai rinunciato a volare, preferendo la vita, più coerentemente romana, del pedone. Questo piccione però sembra avere un andamento particolarmente consolidato e sicuro: cammina dritto, fiero, petto in fuori (come un notabile d’altri tempi che esibisce l’abito su misura fresco di sartoria). E attraversa sulle strisce. Poi si ferma, in mezzo alla carreggiata, e si volta nella mia direzione. Devo inchiodare per non prenderlo.

Il suo atteggiamento sembra esprimere un orgoglio che rasenta la spocchia. È di fronte a me. Non si muove. Lo capisco subito: è un piccione sovranista. Se ne sbatte che vado di fretta: mi ha inquadrato, sono un radical chic del cazzo, non è il mio momento storico, è il suo momento.

E io devo aspettare.

Le due tre macchine dietro di me danno i primi colpetti di clacson, non capiscono la mia sosta perché non vedono il piccione, ma io sì, io lo vedo, e lo guardo. E lui pure mi guarda, con una fissità che inizia a innervosirmi, perché ha il sapore dell’affronto. Potrei mettere la prima e ripartire, alla romana: se ti togli bene, sennò ti arroto. Ma non lo faccio, perché sono democratico, lui è sulle strisce, e per giunta è un avversario politico: sono pronto a morire perché lui possa continuare a esprimere le sue opinioni.

La fila dietro di me – vedo dallo specchietto – aumenta, e così anche il coro di clacson, a cui si aggiungono le prime proteste. Abbasso il finestrino e gli parlo: «Ti togli? Devo passare, ho una riunione». Ma il piccione non si muove. Non credo lo disturbi il “tu”. Credo non sopporti proprio la mia figura, uno sceneggiatore col Freelander 2, la categoria peggiore, il benpensante benestante. Ai suoi occhi, il male assoluto.

«Sì, sono un radical chic» lo anticipo, «credo nella pubblica istruzione, nei pubblici ospedali, credo nella cultura, nei diritti per tutti, credo in una società multiculturale e in una giusta progressione fiscale; ma mi piace bere vini di qualità e se capita, perché no, anche champagne; e ho una casa in campagna. Hai qualche problema?».

Il piccione non replica, si dà un impercettibile assestata, vagamente marziale. «Vogliamo ricominciare con la storia di Occhetto che era comunista con le rose in giardino a Capalbio?». Ma lui niente. Fa il superiore. E in ogni caso non si muove.

«A stronzo!», mi urla ormai apertamente la conducente della Punto dietro di me. La tensione sale. Ma al piccione non importa, non ha paura di niente.

«È cambiata l’aria», sembra dire, «è finita la pacchia». In effetti, intorno a noi, il quartiere è diverso anche solo da qualche mese a questa parte; bar e ristoranti hanno nomi scritti con font littorio, qua e là sono comparse aquile romane, e più generalmente è emerso, latente da chissà quanto, uno spirito sottilmente revanscista, un atteggiamento di sfida e spocchia di cui il piccione che mi impedisce il passaggio è il perfetto emblema.

Intimamente rabbioso, nasconde ferocia dietro a una finta serenità, come il suo leader che manda bacioni. Sono sempre più nervoso. «E anche», gli grido, «se sono a tutti gli effetti un privilegiato, rivendico il diritto a difendere le minoranze». E quello fermo, imperturbabile. «E anche se vivo in un bel quartiere e non sono a stretto contatto con rom e senzatetto, rivendico il diritto a difenderli, a indignarmi di fronte a ogni forma di razzismo. Lavorare e guadagnare bene non può impedirmi di pensare ciò che voglio, e tu dovresti essere pronto a morire perché io possa esprimere il mio pensiero». 

Il piccione non si muove, non dice niente. E allora io infilo la prima e parto. Lui non schioda, non ha paura. Mi fermo a pochi millimetri da lui per non schiacciarlo. Sono fuori di me.

I clacson nella via ormai impazzano, non mi era mai capitato di essere insultato da tante persone insieme, ma scendo e affronto il piccione. «Io me ne frego dei proclami e delle promesse fatte a cazzo e senza coperture, flat tax, reddito di cittadinanza, è il Mediterraneo che mi fa veramente incazzare, che mi fa sentire impotente e disarmato, che la gente muoia in mare con voi che ve ne sbattete… Ma non provate un briciolo di umana compassione? Guarda se devo esprimermi come il papa, è allucinante, ma non fa niente, consentimi di esprimere il mio profondo disprezzo per la vostra politica sull’immigrazione. O un radical chic non può parlare di migranti?».

Il piccione neanche si gira a guardarmi, fissa la targa sporca di fango della campagna del radical chic. «La Maremma», sembra pensare indignato. «Non è la Maremma! Cazzo! È la Tuscia!», urlo indemoniato.

Sono chino su di lui, per terra, i pantaloni sporchi, gli occhi iniettati di sangue, la schiena dolorante (un radical chic che ha persino dolori; rompete le palle pure coi dolori) e solo allora mi accorgo che intorno a me c’è un capannello di passanti che mi fissa sbigottito. «Ok», dico a tutti, «abbiamo fatto degli errori, abbiamo pensato solo ai conti, trascurando i sentimenti profondi di una società frustrata e infelice, ci siamo appiattiti su una politica di austerity senza mai discuterla davvero: e i leader del centrosinistra sono stati imbarazzanti. Ma abbiamo pagato con le scorse elezioni, e ora io pretendo…».

Il piccione si volta lentamente verso di me, togliendomi la parola. Mi guarda negli occhi. Mi sembra di leggere, in quello sguardo, una nota di benevolenza. Quasi di tenerezza. E questo è troppo. Mi alzo, batto forte un piede a terra per cacciarlo, ma lui torna indifferente a guardare dritto di fronte a sé.

Dietro la mia macchina, una fila interminabile di ferocia urlante, ma io non sento più nulla, tranne una forte spinta che mi fa cadere a terra e battere la testa. È un signore tarchiato fuori di sé che mi urla contro, grosso, lo riconosco dall’abbigliamento, mi dà del fascista testa di cazzo con il fuoristrada, dice che ci siamo presi la città e che abbiamo rotto il cazzo, e mi prende a calci. Io sento solo il dolore alle costole, non riesco a replicare, a spiegarmi.

Apro gli occhi, il piccione non c’è più.

Sono nato nel ’72, sono un elettore di sinistra e la mia vita di elettore è sempre stata tormentata e infelice. Questa sciagura è bilanciata da una vita molto fortunata; faccio un bellissimo lavoro, ho famiglia e amici stupendi, un buon carattere. Ho fatto due figli, scritto libri, piantato alberi, e se morissi domani non si potrebbe dire che è una vita buttata. Questo fa sì che il mio umore sia generalmente buono, o comunque lo era mercoledì quando, in macchina, pure in ritardo a una riunione, ho visto uno strano piccione.

Tratto da “A questo poi ci pensiamo”

©2021 Mondadori Libri S.p.A. Milano

Per gentile concessione dell’editore