Scrittura elegante, impasto di bellezza e di violenza con l’anima di chi è perennemente sradicato. Perché il Premio a uno scrittore ignoto ai più deve farci gioire

Quest’anno abbiamo vinto tutto, persino il Nobel, ma non per la letteratura. L’anno scorso che non vincevamo niente, c’era però un puntino della penisola che si era illuminato dopo l’annuncio di Stoccolma. Un punto a misura di bottega piena di libri debordanti sino ai banchetti sulla via Mezzocannone, nel centro della vita universitaria di Napoli.

La Dante & Descartes aveva resistito alla chiusura di altre librerie storiche, ma poi vennero i ladri che trovarono una somma tanto ridicola da racimolare gli euro nella cassa per rifarsi. «Così hanno buttato all’aria tutto quello che hanno incontrato dietro il banco, il mobilino che contiene la Biblioteca Lillipuziana, straordinaria e rara collezione accumulata in tanti anni di ricerca», annunciò in un post Raimondo di Maio. La libreria l’aveva aperta nel 1984 e, pochi anni dopo, si era pure deciso a stampare libri - da quelli minuscoli ricercati dai collezionisti ai volumi di formato comune apprezzati per il gusto editoriale.

Dopo l’estate cominciata con il furto, l’autunno fece piovere quel nome pronunciato in Svezia come il guizzo di una divinità che dispensa un po’ di giustizia riparatrice. L’unico libro di Louise Glück facilmente reperibile in Italia l’aveva pubblicato Raimondo di Maio. Nel giro di breve tempo la raccolta di poesie arrivò da duecento a settemila copie, tiratura da far contento un editore molto più grande quando punta su un romanzo: senza il Nobel, naturalmente. Il nome che significa fortuna e che fortuna ha portato solo sulla “ruota di Napoli” rientra in una casistica che sollecita sempre le stesse reazioni.

Nel 1992 ero alla fiera del libro di Francoforte come standista aggiuntiva dell’Adelphi. Passò come un fulmine Roberto Calasso comunicando che il Nobel era nostro, il libro non ancora pronto, ma c’era la copertina da mettere in bella mostra. Era “Mappe del mondo nuovo” di Derek Walcott, poeta afro-caraibico e amico di Joseph Brodsky che il Nobel lo aveva vinto nel 1987.

Qualche anno dopo correvo dietro al foglio degli appuntamenti con gli editori, approfittando di un’ora buca per tornare allo stand di Mondadori. Non ero nemmeno entrata nel padiglione quando il primo che mi vide esclamò «poetessa polacca! La conosci?».

La conoscevo. Un pochino. Come lettrice di poesia, precisavo, e non per le mie origini. Meglio cercare uno studioso di letteratura polacca. Nel 1996 i cellulari - quegli arnesi ingombranti come dei walkie talkie - erano ancora un lusso, soprattutto in roaming. Bisognava andarlo a cercare, il polonista Francesco Cataluccio, allo stand della Bruno Mondadori che pubblicava solo saggistica.

Nessuno si sarebbe sognato che una poetessa, per giunta polacca, potesse diventare tanto popolare da vendere come un bestseller. Va detto, però, che la fortuna italiana di Wisława Szymborska è davvero anomala rispetto al destino di tanti autori premiati a Stoccolma. Un’eccezione clamorosa visto che non esisteva né un librino tradotto né una cessione dei diritti di una delle sue raccolte.

Ma in fondo gli scrittori premiati non sono degli emeriti sconosciuti che piacciono solo gli accademici di Svezia. Le loro opere arrivano ai giurati ricoperte dagli allori letterari che favoriscono la diffusione in altre lingue. Qualcuno li ha letti, tradotti, pubblicati - lassù in Svezia. E quasi sempre anche da noi.

L’aspra, lirica prosa con cui Herta Müller racconta la Romania comunista sarebbe forse rimasta nel catalogo dell’editore Keller, se come finalista favorita del maggior premio letterario tedesco non fosse stata in procinto di raccogliere delle offerte italiane quando la notizia del Nobel piombò su Francoforte. Müller diventò un’autrice Feltrinelli mentre il libro a cui andò il “Deutscher Buchpreis” uscì proprio da Keller. Oggi è finito fuori commercio, come i romanzi di Abdulrazak Gurnah al momento in cui gli è stato assegnato il Nobel.

Di Gurnah avevo letto tre romanzi - due per lavoro, prima che uscisse per Garzanti, uno per scelta - ma sono passati così tanti anni che quelle letture si sono fuse nel ricordo. Sarebbe più esatto parlare dell’impronta luminosa lasciata da un autore la cui levatura impressiona più fortemente delle storie che racconta, simile al luccichio di un innamoramento.

Gurnah lo avevo amato perché nella sua scrittura elegante convivono bellezza e violenza, malinconia e comicità, poesia trattenuta e dura precisione, perché i suoi personaggi hanno ombre e contraddizioni, perché combinandoli con le lingue e culture della sua isola rivolta e fa rivivere Conrad, Melville e Shakespeare e, infine, perché narra dell’essere sradicati, ammaccati, continuamente tesi verso un altrove. Dopo l’annuncio del Nobel ero felice: non perché avessi cominciato a interessarmi di postcolonialismo, ma perché, molto tempo prima, le mie radici strappate all’Est Europa erano state toccate dai libri di uno scrittore di Zanzibar approdato in Inghilterra.

E allora la motivazione che, come tante degli anni passati, è stata letta come conferma di decisioni troppo guidate da criteri politici - vale a dire “politicamente corretti” - mi è parsa fuorviante e riduttiva. Decantando «l’intransigente e compassionevole capacità di comprensione degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati nel divario tra culture e continenti» che cosa si trasmette della ricchezza e complessità dei libri di Gurnah?

Il Nobel per la letteratura, come gli altri premi nati per volontà dell’inventore della dinamite, ha una vocazione legata allo spirito di un tempo che credeva nel “progresso dell’umanità” pur contribuendo a farla procedere sulla via del disastro. Dover premiare non l’autore più meritevole ma quello che «si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale» lascia tuttavia aperte interpretazioni molto ampie. La “direzione ideale” è stata rinvenuta anche nell’opera di Peter Handke, il vincitore più contestato degli ultimi anni, vuoi per il sostegno a Milošević e altri personaggi implicati nei crimini dell’Ex Jugoslavia vuoi per la serie di apologie letterarie filoserbe che, a quanto pare, per la giuria non facevano veramente testo.

D’altronde, non esiste premio che non sia frutto di mediazioni tra i giurati. E questa, si direbbe, è una delle ragioni per cui, a volte, dal conclave di Stoccolma vengono fuori delle investiture che sembrano tardive o dei nomi che appaiono strappati alla necessità di convergere su un compromesso. Considerando che il campo a cui attingere sarebbe vasto come la letteratura di tutte le lingue, sono scelte né calde né fredde che lasciano il senso dell’occasione sprecata. Nessun autore è stato trasportato dai margini nel canone e nemmeno si è deciso di premiare un nome a cui mancava solo il Nobel per coronare una fama planetaria già raggiunta.

È un’ingiustizia che l’Accademia di Svezia si mostri tanto avara nel consacrare gli scrittori considerati imprescindibili da chi per passione o professione legge molto? Può darsi che generi davvero una stortura, e forse non soltanto nei confronti degli eterni esclusi. Nel 1993 si cominciò a contestare che se era toccato alla letteratura americana, finalmente, il premio sarebbe dovuto andare a Philip Roth, scalzato da un’autrice preferita perché era nera e donna. C’erano pochi romanzi di Toni Morrison tradotti in italiano, tra cui “Amatissima” con cui aveva vinto il Pulitzer. Frassinelli seguitò a pubblicarla, senza un successo eclatante. Di recente, qualcuno la scoprì grazie ai consigli di lettura che accompagnarono la copertura di Black Lives Matter rimanendo colpito da una qualità letteraria che superava le aspettative. Infatti non è detto che uno scrittore “marginale” o “minoritario” non sia altrettanto bravo dei pochi capaci di farsi apprezzare in tutto il mondo. Ciò che impedisce quel riconoscimento è in fondo altrettanto condizionato da fattori extraletterari di come appaiono le decisioni di Stoccolma.

A volte il Nobel riesce a rompere un circolo di cui gli editori hanno solo parte della colpa. Perché se, come Garzanti fece con Gurnah, si pubblica uno scrittore da cui non è venuto nessun tornaconto, provandoci tre volte prima di arrendersi, significa che si credeva nel valore dei suoi libri. L’editoria non può seguitare a proporre degli autori - specie se stranieri, da tradurre - senza aver raggiunto un minimo di risonanza. E dato che, senza Nobel o altri colpi di fortuna, questo avviene sempre più di rado, la lista degli autori per cui si tifa in attesa dell’annuncio di Stoccolma ha qualcosa di simile a una Champions letteraria.

Il che richiama la strepitosa ola da stadio con cui Giorgio Parisi è stato riaccolto alla Sapienza: il Nobel per la fisica vinto da ricercatore di un’università dove manca di tutto tranne la tradizione e la materia umana, non è straordinario? Invece per premiare la ricerca letteraria non servono neanche i fondi che il nostro Nobel ha immediatamente chiesto cogliendo l’occasione del trionfo. Basta che la curiosità e l’attenzione siano disposte a andare verso l’ignoto.