Manager, killer, rampolli. Alla testa di aziende impegnate nelle energie rinnovabili, tornati semiliberi o in circolazione dopo la diaspora corleonese. La rentrée degli scappati nel feudo del superlatitante trapanese allarma la Dia

Le dinasty della mafia siciliana sono tornate nei territori da cui erano fuggite dopo aver perso le guerre sanguinarie scatenate da Totò Riina. Genie che si credevano scomparse riemergono nella capitale come tra masserie e centri industriali di un’isola dagli indecifrabili equilibri criminali in cui tutti cercano Matteo Messina Denaro, senza però più tracce certe della sua presenza.

 

Gli scappati, esponenti di quelle famiglie costrette a una diaspora forzata negli anni della dittatura corleonese, si riaffacciano nelle città e nelle province. Si riprendono ruolo e posizioni costringendo tutti a interrogarsi sui nuovi assetti. La storia degli Inzerillo, negli anni Ottanta leader nel traffico degli stupefacenti, a lungo nascosti negli Stati Uniti e recentemente ricomparsi a Palermo e nelle intercettazioni degli investigatori che li hanno arrestati, non è un capitolo isolato. Il nastro che si riavvolge rivela invece una tendenza generalizzata, confermata dagli analisti della Dia nella relazione semestrale presentata al Parlamento. 

 

Per Cosa nostra una riorganizzazione silente nella quale gioca un ruolo non secondario il ritorno in libertà di killer protagonisti della sanguinosa stagione degli anni Ottanta. Il rischio, paventato dagli analisti, è di una saldatura tra nemici di un tempo, capaci di archiviare rancori, vendette e ostracismi in nome di solide prospettive di affari. Dopotutto c’è il fondato pericolo che con le vecchie famiglie, rientrino dalla finestra anche i grossi capitali del boom economico mafioso. La corrente di risacca rimasta non ha risparmiato il feudo trapanese dell’ultimo stragista Messina Denaro.

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Come un sismografo, le indagini registrano l’influenza dei blitz che puntano alla sua cattura sulle gerarchie interne alle famiglie. Come a Castellammare del Golfo, culla della Cosa nostra emigrata negli Stati Uniti, in cui i colonnelli dei corleonesi sono stati sostituiti da vecchi boss come Francesco Domingo, di recente tornato in carcere. «Ho fatto una guerra per cacciare via i Saracino e metterci a loro», diceva il capomafia, ignaro di essere intercettato, confermando il proprio ruolo egemone. Ma rifuggiva, pragmaticamente, dall’idea di innalzare ulteriormente il livello dello scontro: «Non c’è più nessuno disposto a fare una cosa di questa, i tempi sono diversi». 

 

I pm della Dda di Palermo evidenziano fibrillazioni anche a Marsala, dove può capitare di incontrare per le vie del centro anche due pentiti che hanno testimoniato sulla mafia trapanese. Un ulteriore segno di quella «diversità dei tempi» che è forse la spia di un ritorno all’antico. L’ultimo caso in esame riguarda gli Ingoglia, rientrati a Partanna a trent’anni di distanza dalla faida con gli Accardo, detti Cannata, su cui, negli anni da procuratore a Marsala, indagò Paolo Borsellino.

Un conflitto le cui radici si perdono nel tempo ma che per sentenza riconducono alla spartizione dei traffici di droga. Al tempo, gli Accardo erano sostenuti dal vecchio don Ciccio Messina Denaro, ma soprattutto dagli squadroni della morte capitanati dal figlio Matteo. Una faida di mafia con famiglie decimate in una guerra raccontata da alcuni testimoni di giustizia, Rita Atria e Piera Aiello, tornata d’attualità di recente con il ritrovamento dell’audio originale di Matteo Messina Denaro di un’audizione al tribunale di Marsala in uno dei processi su quegli omicidi.

 

Il rientro degli scappati a Partanna è avvenuto quasi alla luce del sole, con la partecipazione ad una tavola rotonda online sugli ecobonus, organizzata lo scorso aprile dal sindaco, di Benedetto Roberto Ingoglia. Proprio il figlio di Filippo, detto Fifiddu, indicato dai pentiti come il boss della città, strangolato in un casolare nelle campagne di Castelvetrano e seppellito nell’Agrigentino da Matteo Messina Denaro il 19 marzo 1988, senza che si trovasse mai traccia del corpo. 

 

L’ultimo erede che negli ultimi anni ha anche patrocinato la nascita di un impianto di mini eolico a Mazara del Vallo, era fuggito dalla Valle del Belice nei primi anni Novanta, ben conscio dei rischi che correva. Al procuratore Borsellino aveva detto: «Essendo io rimasto l’unico superstite maschio della famiglia Ingoglia mi è naturale pensare di essere un obbiettivo pericolo». In quegli anni aveva preso a spostarsi tra il nord Italia e Londra mentre intorno a lui si moltiplicavano i segnali di allarme.

Gli investigatori notarono che «contemporaneamente a questo inizio di attività delittuosa in Partanna anche in Inghilterra stavano succedendo dei fatti che riguardavano soggetti comunque visti in contatto, o comunque per attività commerciali sia con Ingoglia Antonino, sia con Roberto». Quest’ultimo aveva scelto di allontanarsi ancora, prima in Svizzera, quindi in Brasile, poi chissà dove.

 

Il suo sorprendente ritorno in Sicilia lo vede alla testa, da amministratore delegato, di Energy Italy, un’azienda veronese con numerose filiali che si occupa di energie alternative e opera da general contractor per l’accesso alle agevolazioni per le rinnovabili. Un’azienda attiva dal 2012, le cui origini riportano a un’altra società aperta in Croazia, e sin da allora presente a Partanna anche patrocinando concorsi scolastici a premi.

 

Nella sua rentrée di aprile, Roberto Ingoglia ha ringraziato sindaco e assessori del Comune per averci «messo la faccia direttamente, affinché le persone possano essere tranquille e affidarci i loro lavori». Un riconoscimento della necessaria copertura politica sulle attività di un imprenditore pulito nonostante il cognome ingombrante.

 

Che miete successi, a giudicare dagli investimenti in piccoli impianti di fotovoltaico dinamico e dai numerosi teloni, con su scritto il nome dell’azienda, che campeggiano per le vie cittadine. Uno di questi si trova nella piazza centrale di Partanna dove il nome Ingoglia rimanda al piombo degli anni Ottanta solo a chi ha memoria lunga. 

 

«Il nostro è un gruppo limpido, composto da soci trasparenti e validi. Il fatturato che viene dagli investimenti in Sicilia sono quattro soldi rispetto alle attività che abbiamo in tutta Italia. Il mio riavvicinamento è dovuto all'evidenza che in questi anni, anche grazie al lavoro delle forze dell'ordine, qualcosa è cambiato», spiega Ingoglia all’Espresso. 

 

Il passato e il presente, però, interroga gli investigatori, interessati a decifrare la posizione assunta da Matteo Messina Denaro rispetto a queste dinamiche. Il ramo di attività è infatti quello che tradizionalmente è stato più a cuore del network del superlatitante. L’intera Valle del Belice costituisce una distesa di terreni che fanno gola alle multinazionali delle energie alternative e le compravendite da tempo sono finite al centro di indagini.

 

Le ultime tracce finanziarie degli Ingoglia si trovano in Lussemburgo e nei rapporti economici con un imprenditore originario di Castelvetrano anche lui sfiorato dalle inchieste. Poi, più nulla. Anche a Trapani, del resto, sono tornati in auge vecchi cognomi con la riemersione economica e commerciale degli eredi di Totò Minore, il boss, ricercato fino al 1993, quando si scoprì che era stato sciolto nell’acido su ordine di Riina già 11 anni prima.

 

Un mistero gelosamente custodito tra le pieghe di una guerra emersa con gli omicidi ma combattuta essenzialmente con le lupare bianche, silenti e capaci di confondere gli investigatori con elementi contraddittori. Come lo è il sostegno economico assicurato a Pietro Armando Bonanno, sicario della mafia di Trapani, protagonista della guerra agli Ingoglia e accusato dell’omicidio, rimasto impunito, del giudice Alberto Giacomelli. Anche lui è tornato a farsi vedere in giro.

 

Da semilibero, del resto, prendeva l’aperitivo con il pm di Modena Claudia Ferretti. Una frequentazione costata alla magistrata il trasferimento a Firenze. Lasciata l’Emilia, Bonanno è ricomparso a Trapani. Ma solo dalle 7 alle 22.30. La notte no. Ancora dorme in carcere.