INCHIESTA
A Cremona record di polveri sottili, ma la Regione assolve il polo industriale
La città è seconda in Europa per quantità di PM2.5. L’aria della sua provincia è più inquinata che a Milano. E i medici rivelano un’incidenza allarmante di malattie polmonari. Ma l’indagine epidemiologica chiesta dagli abitanti non è mai partita
La zona industriale, fotografata dalle banchine del porto fluviale di Cremona, si specchia nell’acqua immobile davanti agli ormeggi deserti. Soltanto i cigolii metallici e i fumi delle ciminiere danno suono e movimento al grande quartiere. La notizia che da qualche mese preoccupa gli abitanti è nascosta sotto le scarpe. Basta buttare per terra una calamita grande come una moneta da un euro per scoprirla: la polvere, anche quella fine come talco, resta attaccata.
Succede sulla balaustra del ponte di via Riglio, a ridosso della fabbrica di un importante marchio alimentare. Oppure tra le crepe nell’asfalto di via Bastida o in via Acquaviva, vicino agli impianti che producono mangimi per animali. E poi per chilometri quadrati tutt’intorno, fin sui balconi dei condomini di Cava Tigozzi, lungo le strade e sui davanzali dei villini di Spinadesco e nelle campagne di Sesto ed Uniti, piccoli borghi che accompagnano il record di questo orizzonte lombardo.
Su una classifica di 323 località, Cremona è la prima città in Italia e la seconda in Europa per inquinamento da PM2.5. Si tratta di polveri ultrasottili e particolato fine con diametro inferiore a 2,5 millesimi di millimetro e potenziale incidenza su morti premature e malattie perfino superiore al PM10, per la facilità con cui penetra a fondo nelle vie respiratorie.
L’allarme è suonato durante la pandemia quando, subito dopo la vicina Codogno, quella cremonese è stata la prima provincia italiana a riempire le terapie intensive. E la seconda, dopo Bergamo, per eccesso di mortalità nel periodo compreso tra il 20 febbraio e il 31 marzo 2020. La questione è ora sulla scrivania di Letizia Moratti, assessore al Welfare della Regione Lombardia. Un consigliere regionale eletto a Cremona per il Movimento 5 Stelle, Marco Degli Angeli, ha raccolto la preoccupazione di molti suoi concittadini. E, con una serie di interrogazioni, sta cercando di convincere la giunta del governatore Attilio Fontana affinché, con la massima urgenza, sia avviata un’indagine epidemiologica per valutare l’impatto delle polveri sulla salute dei cremonesi.
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Già un anno prima della pandemia, il 16 gennaio 2019, l’allora responsabile dell’Osservatorio epidemiologico dell’Agenzia di tutela della salute Val Padana che ha competenza sulle province di Cremona e Mantova, Paolo Ricci, ha anticipato l’allarme in un’audizione a Milano davanti alla commissione Sanità della Regione. Quel giorno Ricci mostra percentuali che differenziano Cremona e i comuni limitrofi dalla media del territorio: «C’è un 14 per cento in più di frequenza di ospedalizzazione a Cremona per le patologie respiratorie nel confronto con il resto della popolazione residente in Ats Val Padana. E il 33 per cento per quanto riguarda i comuni limitrofi», spiega l’epidemiologo: «Abbiamo anche una incidenza più elevata del tumore dei polmoni: 7 per cento. Di mortalità per il tumore del polmone: 17 per cento. E poi abbiamo questo dato sulla leucemia con un eccesso del 23 per cento a Cremona. E dell’81 per cento in più, nei comuni limitrofi». Da allora il responsabile dell’Osservatorio epidemiologico, laureato in medicina, è andato in pensione. La Regione l’ha sostituito con un dirigente ad interim laureato in matematica.
Paolo Galante, 49 anni, ingegnere civile, rientra dal lavoro poco prima di cena. Subito dopo lo raggiunge la moglie, Michela Barbisotti, 47 anni, impiegata di banca. Dal 2010 abitano a Spinadesco, poche centinaia di metri dalla zona industriale di Cremona. Il rumore più vicino sale dagli altiforni di un’acciaieria. Con un pennello Paolo e Michela raccolgono la polvere finissima che si deposita sui davanzali e sul tavolo sotto la veranda della loro villetta. «È dal 2013 che raccogliamo la polvere con la calamita», raccontano: «Non chiediamo che si chiudano le fabbriche che danno lavoro. Noi ci rivolgiamo agli enti pubblici, ai sindaci coinvolti, alla Provincia e alla Regione perché facciano i controlli necessari per garantire la salute di noi abitanti, ma anche dei lavoratori di queste industrie. Non è normale che queste polveri ricadano fin dentro le nostre case».
Non ci sono soltanto i fumi dell’acciaieria, oggi uno dei principali poli siderurgici italiani. Nel giro di qualche chilometro, come precisa nel 2019 il responsabile dell’Osservatorio epidemiologico davanti alla commissione Sanità della Regione, «abbiamo un inceneritore per i rifiuti urbani, un consorzio agrario per la produzione di mangimi, con liberazione di polveri di queste attività. E abbiamo anche Crotta d’Adda: un comune limitrofo a Cremona che oltre a essere potenzialmente raggiunto da queste emissioni, è anche sede di un’importante discarica, un milione di metri cubi di scorie della vicina acciaieria».
Sono i sintomi della difficile convivenza tra tutela della salute e attività industriale, che la rapida ripresa economica e il rientro dalla Cina di alcune filiere produttive riproporranno presto in tutta Europa. Ma Cremona sopporta anche le conseguenze sanitarie e ambientali della raffineria aperta nel 1954 e chiusa dieci anni fa sotto il marchio Tamoil. Da via Acquaviva a via Riglio ci si lascia alle spalle le cisterne arrugginite del sogno petrolifero lombardo. Si passa poi davanti alle montagne a cielo aperto di rottami che, senza sosta, vengono trasportati su decine di camion verso la fonderia: milletrecento metri di traffico pesantissimo, da Cava Tigozzi al confine con Spinadesco. E si finisce ai piedi di colline grigie, tra il porto fluviale e l’argine maestro del Po. Qui gli scarti di fusione vengono trattati e frantumati per essere trasformati in materiale da costruzione.
«È un materiale generato da attività di recupero, regolarmente autorizzato, di scorie nere di acciaieria. Il prodotto che si ottiene», spiega la dichiarazione che lo certifica, «presenta composizione e caratteristiche chimiche similari alle rocce di origine vulcanica». La vetta di questi cumuli verrà probabilmente abbassata per formare il fondo dell’autostrada Cremona-Mantova, rimasta per ora sulla carta. Ma potrebbe ugualmente costituire la piattaforma della nuova centrale nucleare lungo il Po se i sogni atomici della Lega, confessati da Matteo Salvini, dovessero malauguratamente materializzarsi. Per il momento sono gli agricoltori a disperdere questa ghiaia di fonderia ovunque: ricoprono cortili, strade di campagna, accessi ai campi.
Anche l’agricoltura ha perso la sua verginità ecologica. Allevamenti intensivi di bovini e suini, impianti a biogas, abuso di fertilizzanti contribuiscono con importanti percentuali alla formazione di polveri sottili. E rendono più complicato risalire alle cause che, per il particolato fine PM2.5, fanno di Cremona una provincia più inquinata di Milano (posizione 315 su 323), Bergamo (306), Venezia (311), Brescia (315), Vicenza (320), secondo i dati pubblicati dall’Agenzia europea per l’ambiente. La peggiore tra tutte è Nowi Sacz in Polonia. Terza dopo Cremona, Slavonski Brod in Croazia. Subito dietro, gran parte delle città della Pianura Padana e del Veneto, condannate d’inverno a lunghi periodi senza vento.
Un’indagine commissionata all’Istituto Mario Negri dai comitati di quartiere, oltre ai soliti inquinanti cancerogeni derivati dai combustibili fossili, ha scoperto la presenza di vari metalli oltre al ferro. «La concentrazione dei metalli nella polvere raccolta sia a Cava Tigozzi sia a Spinadesco mostra anomale concentrazioni che riguardano cadmio, piombo, cromo, rame, stagno e vanadio. Preoccupa soprattutto il cromo, che raggiunge la concentrazione di 749,8mg/kg», rivela Cristina Mandelli, avvocato che assiste i comitati dei due paesi, insieme con il collega Giovanni Siniscalchi.
La provenienza di questi elementi non è stata finora accertata. Ma l’Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, in un’ulteriore indagine pubblicata nel 2020 assolve la zona industriale e in particolare l’acciaieria: «Nel bacino aerografico di Spinadesco, le sorgenti principali dell’inquinamento atmosferico sono la combustione non industriale, come il riscaldamento domestico, il trasporto su strada e l’agricoltura. Per quanto riguarda i metalli, le sorgenti principali sono la combustione nell’industria e i processi produttivi... Le attività industriali locali hanno degli effetti maggiori sulla qualità delle polveri che sulla quantità, pur rimanendo rispettati i limiti sulle concentrazioni dei metalli... [Ma] le concentrazioni di PM10», spiega la relazione finale, «sono comunque principalmente determinate da un generale inquinamento della Pianura Padana».
Il Gruppo Arvedi, proprietario del polo siderurgico di Cremona, condivide ovviamente le conclusioni di Arpa Lombardia: «Non vogliamo nascondere la verità, ma affermarla. Le ragioni della situazione ambientale in cui si trova Cremona vanno identificate nella sua particolare posizione geografica all’interno della Pianura Padana», spiegano dalla società: «Le polveri che si possono trovare nei dintorni dell’azienda possono essere riconducibili a ossidi di ferro che si originano dalla movimentazione delle materie prime utilizzate e sono grossolane, con diametro maggiore a 10 millesimi di millimetro. Sono visibili, ma non inalabili e non vengono considerate ai fini dell’inquinamento atmosferico, poiché precipitano rapidamente in prossimità della sorgente di emissione. E anche se inalate, non possono entrare nella frazione toracica del sistema respiratorio». Lo stesso, secondo il Gruppo Arvedi, vale per il materiale da costruzione ricavato dalla trasformazione delle scorie: «È possibile che le polveri grossolane calamitino debolmente essendoci una componente di ossido di ferro, come accade con alcuni minerali naturali».
Proprio perché la causa del record negativo di Cremona continua a essere incerta, sarebbe urgente un’indagine epidemiologica: «Lo studio continua a subire ingiustificati ritardi», protesta il consigliere Degli Angeli: «Temiamo che sia in corso uno smantellamento dell’Unità di presidio epidemiologico e che la Regione arrivi alla divulgazione di un’indagine monca e incompleta, che non tenga conto dei fattori inquinanti cumulativi. È scandaloso».
Durante tutto il 2020, la centralina Arpa del piccolo borgo di Spinadesco ha registrato una media annuale di PM2.5 di 28 microgrammi per metro cubo: tre punti sopra il limite di legge, nonostante due lunghissimi lockdown. Milano si è invece fermata a 25 microgrammi. Millecinquecento residenti e una manciata di fattorie avrebbero quindi sollevato molte più polveri ultrasottili dei tre milioni di abitanti, del traffico e degli impianti di riscaldamento che caratterizzano la grande area metropolitana milanese. Qualcosa non torna, sempre che non si voglia dare l’intera colpa al meteorismo dei maiali.