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Antonio, turco napoletano a Beirut tra amori, guerre e graphic novel

Una vita in viaggio tra le coste del Mediterraneo. In mezzo alle tragedie del Novecento. In un volume della libanese Michéle Standjofski. Dalla newsletter de L'Espresso dedicata alla galassia araba

«Raccontami una storia», chiede la nipotina al suo bisnonno, e aggiunge orgogliosa: «Sai che sono l’unica dei miei amici ad avere un bisnonno?» Quella bambina bionda che salta fuori dalle pagine del graphic novel “Antonio” (edizioni Des ronds dans l’O) si chiama Michèle, Michèle Standjofski, e oggi è una affermata cartoonist libanese, collaboratrice del quotidiano “L’Orient Le Jour”. Al bisnonno ha dedicato un volume bellissimo, che con tratti sapienti di matita e colori tenui - dodici sfumature di grigio rischiarate da sprazzi di colore - racconta la storia di Antonio e insieme la Storia del Novecento sul Mediterraneo e dintorni.

 

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Perché Antonio Caffiero nasce a Napoli a fine Ottocento, e dopo un’allegra infanzia da scugnizzo parte con il padre per Istanbul. Qui diventano i gioiellieri di fiducia del sultano Mehmet V grazie a un incarico che ha del favoloso: fare un calco in vermeil del cuore di suo padre. Ma siamo nel 1911, l’Italia dichiara guerra alla Turchia e per Antonio inizia una girandola di avventure che lo portano, quasi un Forrest Gump ante litteram, a vivere sulla sua pelle i grandi eventi dell’inizio del secolo: tra espulsioni, epidemie, guerre, traslochi continui tra Napoli e Istanbul, Atene e Beirut, guidato dal motto «Chez nous, c’est partout», casa nostra è dovunque.

Uno sfondo storico che l’autrice ricostruisce con cura e intreccia in una trama travolgente, aiutata dal fatto che la vita del bisnonno è particolarmente ricca di amori, amicizie, passioni. Antonio sposa una vedova francese che ha una figlia (la nonna di Michéle), ma stravede per una famosa cantante greca Roza Eskenazi e a un certo punto, pur essendo antifascista, parte volontario per l’Abissinia per liberarsi di un’amante invadente. Tutto questo è condito dai racconti di quest’uomo affascinante, grande affabulatore che intreccia realtà e invenzione, vero e verosimile. Però non vuole ingannare nessuno: «Amo le storie ma non chi ci crede davvero», dice gelidamente a un’amante delusa. Ma in realtà su quelle storie (la scazzottata con un coccodrillo o la vita di Leonardo da Vinci, esploratore napoletano che viaggiò fino in Cina), Antonio costruisce i rapporti più duraturi: con sua moglie, con gli amici, con la nipotina.

Di quei racconti favolosi Michéle Standfjoski ha rafforzato le parti storiche e ricostruito le pagine più tragiche (anche il massacro degli armeni o il primo bombardamento aereo della storia, vergognoso record dell’esercito italiano). Tre anni di lavoro durante un periodo drammatico – la pandemia in Libano si è intrecciata all’esplosione al porto e a una profonda crisi economica e sociale – che forse solo Antonio avrebbe saputo raccontare con allegria.

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Perché dedicare un libro al suo bisnonno? Per ringraziarlo di averle trasmesso l’amore per il racconto delle storie e anche per il disegno, visto che faceva il gioielliere?

«Avevo molte buone ragioni per dedicare un intero volume ad Antonio, che era il mio bisnonno dalla parte materna: il fatto che fosse un grande narratore di storie è sicuramente una di queste. In effetti era l’unico membro della mia famiglia che mi raccontava storie, per questo la sua morte ha segnato in qualche modo la fine della mia infanzia. Ho anche sentito in lui un forte potenziale romanzesco. Per il suo lato avventuriero e anche mitomane, ma anche per le incredibili storie che ha vissuto. Era l’orafo del sultano Mehmet V e ha realizzato un calco in vermeil del cuore di suo padre, il sultano Abdel Mejid. Fino a che punto questa storia sia vera io non lo dico perché… non lo so, però credo di sì. Nel libro adotto la posizione della “narratrice inaffidabile”, che ammette di deformare la realtà e di mescolare autobiografia e invenzione. Però non è da Antonio che ho ereditato il gusto per il disegno: quello viene dal mio nonno russo, ma questo lo racconterò in un prossimo libro».

Prima in Turchia, poi a Beirut, suo nonno fa fortuna in un ambiente islamico. Qual era il suo rapporto con il mondo turco e libanese?

«Quando Antonio si trasferisce a Istanbul, e più tardi a Beirut, sono due città molto cosmopolite, due città-mondo. Ed è probabilmente questo a far sì che lui si senta a suo agio. Ma lui non posa sui turchi lo stesso sguardo degli altri membri della comunità italiana e greca di Istanbul. Lui mette tutto in prospettiva e cerca di comprendere la complessità delle situazioni. I quartieri popolari del resto lo interessano molto più di quelli frequentati dagli stranieri. Gli ricordano Napoli, dove da ragazzo preferiva i quartieri spagnoli alla strada più borghese dove abitava con i suoi genitori. Inoltre scopre la cultura islamica attraverso lo sguardo di un sultano molto colto, che non ha molto potere, e lo sa, e quindi può consacrare il suo tempo alle poesie e alle sue collezioni di tappeti e di tughra (i sigilli dei sultani, n.d.r.). Io naturalmente non ho conosciuto Antonio in quel periodo, ma mi piace immaginarlo come uno spirito libero. Come autrice pratico il “mentir vrai”, la bugia sincera, nel senso che costruisco il mio personaggio di quell’età in modo che corrisponda alla persona che ho conosciuto molti anni dopo».

Antonio parla degli orrori commessi dagli italiani durante la guerra in Abissinia, i massacri, l’uso dei gas asfissianti. Ma il suo bisnonno aveva veramente detto qualcosa su questi argomenti o li ha aggiunti lei, documentandosi per il libro?

«Il vero Antonio, per come parlava, è sempre stato pacifista. Nella mia infanzia ho sentito spesso le parole “guerra d’Abissinia” senza capire mai bene di cosa si trattasse. Lo ho anche sentito dire che era antifascista, ma solo crescendo, dopo la sua morte, mi sono resa conto che un carattere come il suo, fondamentalmente libero, che detestava orari e disciplina, poteva difficilmente lasciarsi convincere dal fascismo. Poi, immergendomi nella storia di famiglia, una decina di anni fa ho ritrovato le foto di Antonio in uniforme militare in Abissinia. E un’amica di famiglia mi ha spiegato quello che non mi era stato mai detto, cioè che in effetti lui si era arruolato nell’esercito di Mussolini, come cuoco, ma solo per sfuggire da un’amante che lo tormentava. Quello che Antonio dice degli orrori della guerra quindi io non l’ho mai sentito, ma l’ho trovato nel corso delle mie ricerche e l’ho applicato al mio personaggio, perché è del tutto verosimile che lui abbia pronunciato parole come quelle».

Il libro è un continuo rimando tra realtà e invenzione (ricorda un po’ “Big fish”, il libro e il film: lo conosce?). Ma i legami di Antonio con la Storia con la maiuscola – le guerre, gli attentati, le leggi contro gli stranieri in Turchia, sono veri?

«Il mio lavoro è molto documentato. Invento molte cose che riguardano le storie “piccole” ma non per quella con la S maiuscola. Sia per tutti i conflitti che Antonio attraversa (la guerra italo-turca, la Prima guerra mondiale, il conflitto greco-turco, la guerra d’Abissinia, la Seconda guerra mondiale) o per tutto quello che riguarda gli sconvolgimenti che conosce la regione alla fine dell’impero ottomano. La legge discriminatoria applicata contro i turchi di origine straniera (il Varlik Vergisi) è esistita davvero, e ha davvero rovinato la famiglia di mio padre. Eppure Antonio non la condanna del tutto, osserva quello che accade e capisce bene sia i turchi che gli italiani o i greci. Anche gli avvenimenti del settembre 1955 sono ben documentati. Quanto a “Big Fish”, non ci ho pensato affatto mentre scrivevo e disegnavo, ma in effetti ci sono delle somiglianze. Comunque mi sono molto divertita nel mescolare realtà e invenzione: e questo è sicuramente Antonio che me lo ha trasmesso!»

Le sue tavole sono scure – grigio, beige, nero – con sprazzi di giallo, rosso, blu. È il suo stile o è una novità scelta per questo libro? E forse ha influito sui toni anche il fatto che il volume sia stato stampato (in Italia) su carta riciclata e con inchiostri vegetali?

«Ho scelto di lavorare per questo libro con matite colorate con diversi toni di grigio (sono 12 sfumature diverse). Ho aggiunto a questi grigi uno o due colori per ogni città: il giallo per Napoli (e del resto il nome di quel colore è proprio “giallo di Napoli”!), il giallo e il blu per Istanbul, il blu per il Pireo, ancora blu più rosa per Beirut. Questo permette di caratterizzare ogni città e anche di dare al lettore un modo per orientarsi. È una scelta narrativa più che uno stile. E in effetti anche se non ho potuto seguire la stampa del libro perché ero distante, può darsi che l’uso di inchiostri vegetali abbia offuscato un poco i colori».

Perché questo libro esce proprio adesso? Lo ha disegnato durante il lockdown per il Covid, e durante i disastri che hanno colpito il Libano negli ultimi anni?

«Il libro doveva uscire prima, è stato rimandato, come tanti altri libri, a causa del Covid. Ho cominciato a lavorare su Antonio tre anni fa, quindi prima della grande crisi che ha colpito il mio Paese. E ho continuato a lavorare durante il lockdown. Gli avvenimenti in Libano hanno ritmato il mio lavoro, e il lavoro mi ha travolta e mi ha molto aiutata ad attraversare questo periodo estenuante» .

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