In occasione della giornata mondiale contro l’AIDS, un nuovo film-documentario che abbatte 40 anni di stereotipi, dalla scoperta dei primi casi di sieropositività in Italia fino ad oggi

“Il fine di “Positivǝ” è sempre stato quello di raccontare sia cos’è stato l’HIV negli ultimi quarant’anni, ma soprattutto come viene descritto, visto e vissuto oggi. I protagonisti di questa storia fanno una vita più o meno ordinaria, esattamente come la fa chi non ha contratto il virus.”. Il nuovo documentario diretto da Alessandro Redaelli, in anteprima il 24 Novembre al Cinema Anteo di Milano e successivamente sulla piattaforma Nexo+, è stato realizzato dal regista per contrastare decenni di comunicazione fondata sulla paura. Da un’idea di Francesco Maddaloni, Salvatore De Martino e Guido Radaelli, in “Positivǝ” vengono ripercorsi 40 anni di storia di questo virus in Italia come non è mai stato fatto prima. Daria, Daphne, Gabriele e Simone sono rispettivamente una donna cis gender, una donna trans, un uomo eterosessuale e un uomo omosessuale che vivono la propria malattia, l’hanno accettata, capita e che l’hanno così interiorizzata da renderla del tutto normale.

 

 

Nel documentario sono presenti anche le testimonianze di persone che gli anni ‘90 li hanno vissuti, personaggi dello spettacolo famosi e altri meno in vista ma che hanno realizzato storiche campagne di attivismo. Tutti con qualcosa di prezioso da dire.
“Viviamo ancora in un mondo in cui quello che non si conosce viene visto con estremo sospetto, viene allontanato, viene messo da parte.”, afferma Redaelli, trentenne e già autore di Funeralopolis, mettendo a confronto il covid19 con un virus scoperto in Italia 40 anni fa. “Sappiamo con certezza che il coronavirus attacca tutti indiscriminatamente, a prescindere dalle proprie abitudini, e quindi tutti si sentono potenziali infetti. Dovrebbe essere visto così anche l’HIV. Di conseguenza non è tanto il film che dovrebbe farci ragionare a proposito del Covid, ma questa nuova pandemia che dovrebbe farci ragionare su quanto tutti siamo uguali, e quanto le discriminazioni di qualunque tipo siano sempre e totalmente ingiustificate.”

 

Alessandro Redaelli si dice soddisfatto del suo lavoro e racconta che, mostrando Positivǝ ad alcune persone che non conoscono nulla dell’argomento, si è sentito dire che hanno imparato molto e che non guarderanno più l’argomento con gli stessi occhi di prima: “Mi hanno detto che faranno il possibile per diffondere le informazioni che hanno imparato. Per me, e per tutto il team, questa è una grande vittoria.”

Come è cambiata la sua percezione del tema, una volta finite le riprese?
“Devo dire la verità: anche io, prima di iniziare il film, ero piuttosto ignorante in materia. Vengo da una generazione che ha interiorizzato gli ultimi strascichi dell’informazione che si è fatta per molti anni a proposito dell’HIV, quindi alcune cose le sapevo. Sapevo anche che oggi una persona HIV positiva può vivere serenamente senza alcun problema, ma non sapevo - ad esempio - che se si è sotto terapia antiretrovirale è impossibile, anche volendo, attaccare il virus, o che esiste un farmaco che previene l’HIV. Ero sicuramente più informato delle nuove generazioni, che invece spesso non sanno nemmeno di cosa stiamo parlando. Spero che il pubblico riesca a colmare alcune lacune”.

 

Nel film emerge anche un aspetto nuovo sull’HIV: la maternità. Un tema che lei ha voluto inserire per offrire un segnale di speranza?
“Decisamente. Daria, oltre a essere una persona splendida, è anche una madre estremamente consapevole di tutto ciò che circonda la sua condizione, e allo stesso tempo - come tutti - timorosa di quello che può pensare il prossimo. Quasi nessuno sa che si può essere HIV positivi e allo stesso tempo genitori, senza alcun rischio per il bambino. Il fatto che lei abbia avuto il coraggio di mostrarsi in volto dimostra prima di tutto una grande forza d’animo, ma soprattutto lancia un enorme segnale di speranza a tutte le persone che vogliono avere, o hanno già, dei figli, ma che hanno paura di mettere sul piatto la propria condizione con gli altri”.

 

Qual è la cosa che accomuna tutti i protagonisti?
“Sicuramente la voglia di raccontarsi, di raccontare il virus, di esser percepiti e percepite come sono davvero. Daphne, Gabriele, Simone e Daria hanno voglia di vivere, e sono stanchi e stanche di doversi nascondere o vergognare. Citando il film: “Di cosa?” dice Simone a un certo punto, “non mi devo vergognare di niente”. E credo che, in fin dei conti, il fulcro del discorso stia tutto là”.

 

“Positivǝ” parla quindi di un virus che entra nelle vite delle persone ma non le rappresenta. Però l’HIV le condiziona in qualche modo, lei cosa ne pensa?
“Oggi te le condiziona, ma fino a un certo punto. Fino ai primi anni Novanta avere l’HIV voleva dire essere condannati a morte, seguire un regime di farmaci distruttivo e cambiare completamente la propria vita in funzione del virus. Oggi bastano una o due pastiglie al giorno, tra un po’ basterà un’iniezione al mese, è quasi come non averlo. Il problema è che sul fronte della comunicazione siamo rimasti agli anni Novanta, per cui tu, persona sieropositiva, sai che è così, ma il resto del mondo no”.