Il dolore e il grido di rabbia restituiscono la differenza inconciliabile che c’è tra carnefici e vittime. Era così per ebrei e babilonesi nella Bibbia. E oggi

Nella Bibbia c’è un salmo che è allo stesso tempo famosissimo e occultatissimo. È il 136esimo e comincia con il celebre verso “Sui fiumi di Babilonia”. Anche se non lo avete mai letto, senza dubbio lo avrete cantato sulle note del successo discografico che ne fecero i Boney M, intitolandolo proprio “By the rivers of Babylon”. La storia raccontata nel salmo è semplice: gli ebrei, conquistati e deportati dai babilonesi ormai da più di una generazione, si trovano invitati a integrarsi nel nuovo paese, dove i loro conquistatori si illudono di poter pacificare la violenza passata invitando gli esuli a condividere i canti della loro terra. «Cantateci i canti di Gerusalemme!».

 

Il salmista prima ammonisce se stesso - mi si attacchi la lingua al palato se intono i tuoi canti in terra straniera, o Gerusalemme - poi effettivamente un canto lo intona, ma non è quello conviviale che si aspettano i suoi deportatori: dalle corde della sua cetra parte infatti un salmo di maledizione con parole così pesanti che, nonostante la fama del testo, nessunǝ - né chi recita il salterio per fede, né chi lo canticchia in auto ai semafori – arriva mai a pronunciare i versi mozzafiato che lo chiudono. Nella traduzione della conferenza episcopale italiana la coda del salmo recita così:

 

Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme,
dicevano: «Distruggete, distruggete
anche le sue fondamenta».

 

Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.
Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra.

 

Agghiacciante, mi si dirà. L’immagine di neonati sfracellati contro la roccia, di una città distrutta e l’augurio del contrappasso sono così violenti che si stenta a credere che qualcuno possa sul serio aver usato questo testo per pregare, eppure è proprio così. Mi dispiace per i cuori sensibili che possono sentirsi urtati da quei versi, ma esiste un registro di invocazione al cielo che è fatto di rabbia e di dolore, di indignazione e di senso profondo di ingiustizia, uno stato d’animo orante a cui le parole di pace e conciliazione non sono sufficienti.

 

Bisogna però mantenere una distinzione molto netta tra i soggetti della scena, perché la violenza di Babilonia devastatrice non è la stessa violenza del salmista che invoca la distruzione dei suoi deportatori. Da un lato c’è un fatto violento concreto - un’invasione, la rasa al suolo di Gerusalemme, lo sradicamento e schiavizzazione di un popolo, la beffarda pretesa di vederlo felice fuori dalla sua patria - dall’altro c’è un uomo con una cetra in mano che rifiuta di considerare la violenza subita come un fatto che può essere dimenticato e irrilevanti le sue conseguenze. Il salmista non dice «io ti devasterò», ma «beato chi ti renderà la tua stessa devastazione».

 

L’indignazione che dovrebbe scuoterci il cuore non è dunque quella per le parole violente del cantore ebreo che non vuole fare il giullare per i figli dei suoi carnefici, ma è quella per la violenza primaria che ha sbattuto sulle rive dei fiumi di Babilonia migliaia di persone a piangere la propria casa natale distrutta e i propri neonati davvero sfracellati sulla roccia.

 

Il salmo mi è tornato in mente nei giorni scorsi in tre circostanze. La prima quando Roberto Saviano è stato costretto a presentarsi davanti a un tribunale per rispondere del fatto di aver detto “bastardi” a Meloni e Salvini in una trasmissione televisiva, con lucida indignazione davanti alle immagini del corpo di un piccolo migrante morto affogato per assenza di soccorsi nel Mediterraneo. La seconda quando il cantante Ghali, allo stadio di San Siro, si è alzato inveendo contro Matteo Salvini per motivi del tutto analoghi a quelli di Saviano. La terza quando Alfonso Signorini si è lamentato degli attacchi subiti in risposta alle sue posizioni antiabortiste. C’è una violenza che disumanizza e che proverbialmente grida vendetta al cospetto di Dio. È da miopi e superficiali confonderla con la reazione forte e dignitosa che restituisce la differenza tra carnefici e vittime, formulando la terribile preghiera che ci fa tornare umanǝ.