Nelle soprintendenze manca il personale. La carriera universitaria è un miraggio. E a Roma il Pnrr prevede di assumere solo cinque esperti

Come in tutti gli organismi complessi, in Italia l’archeologia ha un Dna suscettibile. Nel Paese che racchiude il maggior numero di siti Unesco, 58 su un totale globale di 1.154 siti distribuiti in 167 Paesi, la professione più affascinante per eccellenza vive ancora di contraddizioni, attanagliata da una retorica romantica figlia del Grand Tour settecentesco e un futuro che ritrae bene la facciata site specific realizzata dall’artista JR su Palazzo Strozzi: un dialogo con il mondo esterno talmente urgente da prendere la forma di una ferita. Stando agli ultimi dati Istat, almeno un Comune italiano su tre ospita un museo nel suo territorio: è il cosiddetto “patrimonio diffuso”, che conta in media 1,6 strutture museali ogni cento abitanti.

Queste cifre appaiono, però, meno confortanti se si guarda ai numeri del ministero della Cultura. Solo quest’anno, il Consiglio Superiore dei beni culturali ha denunciato un aumento di carenza del personale nelle soprintendenze del 10 per cento rispetto a cinque anni fa, con una progressione nelle posizioni apicali: la carenza dei dirigenti raggiunge punte del 60 per cento, fino al 75 per cento nel settore degli archivi, luogo indispensabile per la ricerca: «L’archivio è il luogo di connessione tra pubblico e privato. Se io ho bisogno di consultarlo e lo trovo chiuso, questo impatta sul mio lavoro da libero professionista», afferma Alessandro Garrisi, presidente dell’Associazione nazionale archeologi (Ana). Gli fa eco Italo Muntoni, presidente degli Archeologi del pubblico impiego, che rappresenta chi lavora dall’altra parte della barricata: «Oggi tutta la responsabilità operativa ricade sulle spalle dei funzionari perché mancano quelle figure tecniche che sono state per anni l’ossatura operativa del ministero. E così, se dei professionisti hanno la necessità di accedere ai magazzini, devo andarci io di persona perché non ci sono gli addetti ai servizi di vigilanza», dice.

La stessa criticità emerge nei sopralluoghi ai cantieri pubblici o privati, dove la figura dell’archeologo è prevista per legge. In Liguria, per esempio, l’istituzione della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Imperia e Savona (che ha sede ancora a Genova) voluta dal ministro della Cultura, Dario Franceschini, non ha risolto le difficoltà operative dei funzionari, troppo pochi e con altrettanto poche risorse in una regione difficile da coprire senza finanziamenti a causa della sua conformazione territoriale: «Per un sopralluogo a Ventimiglia, un soprintendente deve fare oltre cento chilometri con una sola auto, spesso neppure a sua disposizione. Come può un funzionario stare sul territorio e fare sopralluoghi ai cantieri in queste condizioni?», denuncia Garrisi.

 

A monte, manca una fiducia politica. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza mostra esiti ambivalenti. A casi come quello di Roma, dove alla vigilia del Giubileo e dell’Expo il governo prevede di stanziare 500 milioni di euro per la «valorizzazione del patrimonio archeologico, culturale e turistico», fanno da contraltare episodi di miopia strategica. Per comporre la Soprintendenza Speciale prevista nel Pnrr, per esempio, il bando lanciato prevede solo cinque archeologi laureati in Beni culturali o con indirizzo archeologico a dispetto di trenta figure di professionisti quali architetti, ingegneri o avvocati: «Il Pnrr impone all’Italia di procedere con un passo veloce, ma il ministero non ha quel ritmo per correre alla stessa velocità», spiega Muntoni che, come portavoce dei funzionari ministeriali che operano nelle soprintendenze e nei musei, da mesi punta il dito sui rischi alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio paventati da alcuni progetti di transizione ecologica. La figura dell’archeologo viene, per giunta, additata come l’ostacolo a un fantomatico progresso, come emerso dallo scambio di battute tra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il ministro della Cultura, Dario Franceschini, in un fuori onda al recente G20 della Cultura: «Se uno ascolta troppo gli esperti non fa niente», ha detto il premier.

È questa la realtà che si ritrovano gli aspiranti archeologi se non scelgono, altrimenti, di respirare l’aria stantia dell’università. In Italia, la carriera accademica è un percorso riservato solo al tre per cento degli studenti di archeologia. Lo sa bene Andrea Crisci, 27 anni, specializzando in Archeologia bizantina all’Università di Perugia, che guarda al suo futuro lavoro come a un Giano bifronte: «Vorrei lavorare come professore all’università, ma anche ricavarmi la possibilità in ambito pubblico, all’interno della soprintendenza». Basta, però, lo spazio di poche parole perché le sue aspirazioni lascino spazio al disincanto: «In questi anni ho toccato con mano la difficoltà da parte della mia università di reperire fondi per gli scavi. Questa penuria, unita alla mancanza di tutele, mi fa sperare poco per il futuro», ammette. Il pessimismo di Andrea, comune a tanti, troppi studenti e specializzandi, è smorzato solo dalla passione. Come quella di Linda Di Falco, pronta a specializzarsi in archeologia classica: «L’Italia non è un Paese per archeologi, sia per il tasso di disoccupazione della mia categoria che per la poca importanza che si dà alle potenzialità del nostro territorio. Eppure, penso che la soluzione sia far cooperare le specializzazioni, perché solo così si può spingere lo Stato ad investire di più nella ricerca e a creare nuovi posti di lavoro».

Spesso nelle università l’archeologia è percepita come una tradizione che si perpetua da una cattedra all’altra. Ma i pensionamenti e la scarsità di posizioni accademiche hanno reso gli atenei anacronistici rispetto agli orizzonti professionali. Come presidente dell’Ana, Garrisi denuncia nelle università la mancanza di un avviamento al mondo del lavoro: «Si tramanda un tipo di archeologia vista esclusivamente come scavo, ma l’archeologo si occupa anche di progettazione, assistenza e curatela. Nel mio caso, per esempio, gli scavi rappresentano il 20 per cento della mia attività professionale».

 

Così le università diventano templi dove una professione si arrocca in un culto incantato di sé, rendendo gli stessi studenti inconsapevoli delle possibilità professionali: «Per molti il professionismo diventa una sala d’attesa, dove siedono archeologi che aspettano di iniziare un percorso accademico o vincere un dottorato, ma sempre con l’idea di fare altro nella vita», continua Garrisi. La mancanza di formazione e consapevolezza diventa, così, deleteria per il libero professionista, sempre meno competitivo nel mondo del lavoro: «Vogliamo puntare alla formazione dei neo-laureati attraverso tirocini mirati, perché capiscano quanto occorre essere pagati. Ciononostante, è necessario che si attivino anche le università: non è accettabile che un laureato esca dall’università senza capire come si redige un contratto o un curriculum professionale». Un paradosso, in netto contrasto con all’apporto che il decreto ministeriale 233/2019 ha dato al riconoscimento dell’archeologo come professione, con i suoi specifici ambiti.

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Per Christian Greco, occorre una rivoluzione. Il direttore del Museo egizio di Torino, esempio virtuoso di valorizzazione della cultura materiale, ha vissuto in prima persona i limiti di una professione simile a un percorso a ostacoli: «Quando mi iscrissi a egittologia in Olanda, il mio professore mi ripeteva continuamente che non avrei mai trovato lavoro come archeologo. Era vero in parte: il mio primo lavoro pagato in ambito umanistico è stato a 34 anni», ammette. Da quell’esperienza, Greco ha compreso che non è più tempo di tollerare che i laureati nelle discipline umanistiche siano visti senza competenze spendibili nel mondo del lavoro: «Un archeologo può fare di tutto! Conosce a fondo la realtà, può lavorare con meticolosità nell’estremamente piccolo occupandosi, allo stesso tempo, di ricostruire connessioni estremamente grandi. È una persona fondamentale per capire che la realtà è complessa e che non ci sono risposte semplici a fenomeni articolati», aggiunge.

 

È quanto generano gli estremismi, che spesso giovano nel ridurre all’osso realtà che uno spirito critico, invece, scruta e sa tradurre. Per Greco, un mondo più giusto e socialmente accettabile passa anche da una visione che supera la tutela e la valorizzazione del patrimonio come due nuclei distinti, lasciando posto alla loro osmosi: «Propongo che si arrivi alla cura del patrimonio, perché la nostra cultura materiale sia accudita attraverso la ricerca in un dialogo costante fra musei, soprintendenze, parchi archeologici e università. Ce lo chiede in modo chiaro l’articolo 9 della Costituzione: la tutela del patrimonio culturale non può reggere su proibizioni o esclusività: è, di per sé, inclusiva». Lo dice il direttore di un museo-scrigno di reperti che, provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo, racchiudono ancora quell’intimo, universale potere di insegnarci l’accoglienza, trasformando i luoghi della cultura in quelle che discipline come l’archeologia rendono autentiche scuole di vita.