Nominare le cose è importante. Per questo è in malafede chi finge di non vedere che nel ddl Zan il punto più contestato non è penale, ma culturale

Al netto dei giochi politici che sono costati l’affossamento del ddl Zan, la questione dell’odio verso categorie umane specifiche e di come bisognerebbe affrontarlo resta aperta. Per capire perché non bisogni mollare nemmeno un istante l’enorme partita culturale dei diritti civili è utile osservare come, all’indomani della bocciatura in parlamento, il fronte del conservatorismo intellettuale abbia sentito il bisogno di ribadire gli argomenti con cui per mesi aveva osteggiato la proposta di legge.

A farlo sono le stesse firme che gridano contro il pericolo della fantomatica cancel culture - l’ultimo a farlo è stato Luca Ricolfi dalla prima pagina di Repubblica - o che inorridiscono per il presunto stupro della lingua italiana perpetrato da chiunque provi a sperimentare soluzioni che smascherino i dispositivi di potere riflessi dal linguaggio.

A queste persone verrebbe voglia di dire: non compiacetevi, perché ogni volta che scrivete un editoriale dove ve la prendete con gli obiettivi o i metodi delle categorie discriminate a cui non appartenete, non state agendo da acuti intellettuali in direzione ostinata e contraria. Non sentitevi coraggiosi paladini del pensiero alternativo e “scorretto”, perché è vero il contrario: state agendo in noiosa conformità con decine di commentatori conservatori che parlano indisturbati dalla medesima posizione, quella di chi è cresciuto comodo in un mondo fatto tutto a sua misura.

In quel mondo, uno scrittore maschio eterosessuale che dice che asterico e schwa non lo rappresentano afferma un’ovvietà, perché ovviamente lo scopo di queste sperimentazioni linguistiche non è rappresentare lui. In quel mondo, un giornalista senza disabilità, eterosessuale e cisgender che scrive che le aggravanti suggerite dal ddl Zan secondo lui erano inutili dice un’altra ovvietà, giacché è ovvio non era a quelli come lui che sarebbero dovute servire.

 

La logica del privilegiato è quella di chi si considera l’unica unità di misura delle cose e non è quindi strano che non colga il ridicolo di continuare a ripetere “non è un mio problema, ergo non è un problema”. C’è una teoria, nello studio della parabola delle lotte per i diritti civili, che dice che in ogni società in cui si vive un conflitto di potere il gruppo privilegiato cederà il suo vantaggio al gruppo discriminato solo quando il privilegio avrà ormai un margine di esercizio così risicato che richiederà più energia difenderlo di quanti vantaggi offra agirlo. Lo abbiamo visto qualche anno fa, quando le forze politiche in parlamento hanno riconosciuto alle coppie omosessuali un surrogato di matrimonio solo nel momento storico in cui le nozze non erano più l’ambita meta di vita nemmeno per le coppie etero.

Il fatto che stavolta la maggioranza non sia stata disposta a cedere di un millimetro sull’estensione delle aggravanti d’odio verso disabili, donne e persone Lgbt, significa due cose: che la possibilità di esprimere o fomentare odio impunemente verso queste categorie è ancora fondamentale nel discorso pubblico di una parte importante dei partiti in parlamento e che non è considerata abbastanza grave dagli altri.

 

Si dice spesso che nominare è importante, perché quello che non ha un nome non esiste, ma è falso: esiste eccome, ma dentro allo statuto della negazione, dovendo cioè fare la doppia fatica di esistere e di farsi riconoscere l’esistenza.

Per questo sono in malafede gli elzeviristi finto liberal che scrivono che non si può vietare l’odio per legge nominando tutti gli odi possibili e che l’aggravante dei futili e abietti motivi sarebbe già sufficiente.

Il ddl Zan non vietava l’odio transfobico, come la legge Mancino non vieta quello razziale, ma lo indicava come pensiero discriminatorio comune contro il quale si poteva agire istituzionalmente con l’educazione specifica nelle scuole. Il fatto che si faccia finta di non sapere che era culturale, e non penale, il punto più controverso del ddl, dimostra - casomai servisse ancora farlo - che è proprio quella cultura che non si vuol cambiare.