Il caso
La storia infinita del deposito delle scorie radioattive che nessuno vuole
Mentre Cingolani spinge per il nucleare del futuro, non è ancora risolto il problema delle vecchie centrali chiuse. E dalle 67 aree selezionate dalla Sogin per mettere in sicurezza i rifiuti entro l’anno arriva un no compatto e bipartisan
C’è tempo tutto novembre per chi volesse seguire un corso accelerato in rapporti fra politica ufficiale e paese reale. Basta andare sul sito della Sogin, la società che lo Stato ha incaricato di smaltire le centrali nucleari, e seguire il seminario nazionale sulla Cnapi, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive.
Il processo di selezione dalla short list è stato avviato il 5 gennaio e le consultazioni in streaming sono aperte a tutti i portatori di interesse ossia enti locali, associazioni sindacali e industriali, comitati, semplici cittadini. Il format online non è breve, oltre cinque ore a puntata, ma nulla è breve nei vent’anni di attività della Sogin, giunta dopo numerosi rinvii a identificare 67 zone papabili in cinque macroaree di otto regioni (Piemonte, Toscana-Lazio, Puglia-Basilicata, Sardegna, Sicilia). Fra queste bisognerà selezionare la vincente.
Come si fa a dire che è la volta buona? Semplice: perché il consenso è unanime. Tutti vogliono il deposito nazionale, tutti concordano che è cosa buona e doverosa. Ma nessuno lo vuole nel suo cortile. Insomma il deposito è un po’ come la morte.
Necessaria e inevitabile, purché tocchi a qualcun altro. E poiché per morire c’è sempre tempo, l’Italia ha preferito rinviare di anno in anno, di cda in cda, di nomina in nomina, facendo di Sogin un esempio di stratificazione geologica delle varie età politiche.
Basta dare un’occhiata alla lista di decine di consulenti legali della società controllata dal Tesoro e finanziata dalle bollette elettriche. Ci sono Andrea Guarino, ex deputato dell’Ulivo nel 1996 con Rinnovamento italiano, Stefano Previti, collega di studio e figlio dell’ex ministro forzista Cesare, Luisa Torchia, consigliere giuridico di Romano Prodi e di Franco Bassanini, Andrea Gemma, fedelissimo dell’allora vicepresidente del consiglio Angelino Alfano. Per restare ai giorni nostri, c’è Luca Di Donna, socio di Giuseppe Conte finito sotto inchiesta per avere sfruttato troppo bene l’amicizia con l’ex premier.
Infine, c’è Piersante Morandini, vicino all’attuale ad Emanuele Fontani, dirigente interno nominato il 17 dicembre 2019 dai due ministri al tempo più influenti su Sogin, i grillini Stefano Patuanelli (Sviluppo economico) e Sergio Costa (Ambiente). Fontani dovrà tirare le somme del seminario nazionale. Una volta firmato il bilancio 2021, lascerà il passo a un nuovo ad, che sarà suggerito al Mef da Giancarlo Giorgetti (Mise) e Roberto Cingolani (Mite).
Nel frattempo la mappa europea si è riempita di depositi centralizzati di rifiuti radioattivi. Ce ne sono trentadue, di cui sei in costruzione, sette chiusi, nove realizzati in profondità e il resto in superficie. Sono dovunque tranne che in Italia.
Ciò dimostra quello che tutti danno per scontato. Il deposito nazionale è sicuro e conviene ospitarlo. In tempi di magra per gli enti locali l’investimento promesso sui 150 ettari (10 per i rifiuti ad attività bassa, altri 10 per quelli più nocivi, 90 per le protezioni, 40 di parco tecnologico) è pari a 900 milioni di euro. Per i quattro anni di costruzione sono previsti 4 mila posti di lavoro che scenderanno a 700 stabili quando l’impianto sarà a regime.
Ossia, quando? Nel cronoprogramma Sogin dopo il seminario nazionale c’è un mese per le osservazioni finali. A fine dicembre dalla Cnapi si passa alla Cnai (carta nazionale delle aree idonee) con l’eliminazione dell’avverbio potenzialmente e si raccolgono le manifestazioni di interesse. Che a tutt’oggi sono pari a zero. Nessuno ha fretta di portarsi in casa i fusti radioattivi delle quattro centrali nucleari chiuse dopo il referendum del 1987 (Caorso, Garigliano, Trino Vercellese, Latina) e dei siti collegati di Saluggia e Bosco Marengo in Piemonte, di Casaccia in provincia di Roma e Rotondella (Matera).
Nell’attesa miracolistica che qualcuno si faccia avanti, si parla di cinque o sei anni minimo per l’entrata in attività del deposito proprio mentre Cingolani riapre alla fissione nucleare in una fase in cui l’abbandono accelerato delle fonti fossili rischia di creare un gap energetico allarmante. Ma questa è un’altra storia. La Sogin è nata per smantellare e smantella attraverso il confronto democratico. Intanto il tempo passa e il tassametro dei costi gira.
CI SONO VOLONTARI?
Il seminario nazionale è stato impostato secondo un calendario che ha messo in prima battuta le due isole maggiori, Sicilia e Sardegna, entrambe a statuto autonomo. Ospiti fissi sono la moderatrice Iolanda Romano, ex commissario straordinario al Terzo Valico Milano-Genova su nomina dell’allora ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, e Fabio Chiaravalli, direttore del deposito nazionale e parco tecnologico nonché manager Sogin dalla fondazione (2001) realizzata con un massiccio trasferimento di personale dall’Enel.
Guardando lo streaming è difficile evitare la sensazione di assistere a un talent show al rovescio, dove i candidati maltrattano i giudici. Romano (frase di culto «si possono fare domande, anche retoriche») e Chiaravalli (citazione dotta da Paracelso «dosis sola venenum facit») si scontrano con l’allevatore che chiede «quanto date all’ettaro», con l’autonomista sardo con bandierone dei Quattro Mori. Scienziati di ogni estrazione convocati a difendere il deposito non fanno breccia nell’ostacolo insormontabile della politica locale nemmeno quando citano i buoni esempi dell’Europa e filmano il vignaiolo della Champagne, regione dove i francesi hanno installato il loro deposito, mentre rilascia dichiarazioni tranquillizzanti, quasi lamentandosi dei troppi controlli sulle emissioni.
In cambio, l’assessore siciliano all’ambiente Salvatore Cordaro sottolinea un elenco infinito di ostacoli, dall’insularità ai trasporti, dai terremoti alle piene. L’esponente della giunta Musumeci è sostenuto dagli interventi successivi: nessuna delle quattro aree individuati dal Cnapi va bene. A Trapani città siamo in città e vicino ai vini di Alcamo. A Calatafimi-Segesta c’è il tempio dorico più nove laghi artificiali. A Petralia Sottana e Castellana Sicula la strada verso il deposito passerebbe dal centro di Resuttano. A Butera c’è l’uva di Canicattì e inoltre «depositi alluvionali di età olocenica».
La Sardegna, dove le aree selezionate sono quattordici, condivide l’insularità e rimanda al mittente Sogin l’offerta attraverso un rappresentante del presidente regionale Christian Solinas. Anche qui, come dovunque in Italia, è un elenco di eccellenze agroalimentari da ristorante stellato: pecorini, grano, carciofi, zafferano. In più, si citano i nuraghi e un referendum del 2011 quando gli elettori hanno votato no al nucleare in Sardegna con uno schiacciante 97 per cento e un’affluenza del 58,6 per cento, superiore di cinque punti alle ultime regionali.
In Basilicata Gianni Rosa, l’assessore all’ambiente della giunta guidata dal generale Vito Bardi, cita la minaccia all’oro blu dell’Acquedotto pugliese e un altro dei quindici criteri di esclusione: le licenze per ricerche petrolifere in una regione che ha già il maggiore giacimento offshore d’Europa. Stessa musica in Puglia con l’aggravante, rivelata dalla geologa dell’università di Bari Luisa Sabato, che le carte usate per individuare le aree sono vecchie e non più corrispondenti alla mappatura attuale.
Quanto al Lazio, la frontwoman della protesta è Camilla Nesbitt, cofondatrice della casa di produzione Taodue insieme al marito Pietro Valsecchi. In prima linea qui è la difesa della Tuscia, a nord di Roma dove, dichiara Nesbitt, «c’è un terzo delle 67 aree selezionate dalla Cnapi». Anche per la sessione territoriale del Lazio, prevista il 9 novembre, si annuncia battaglia e il Piemonte, che ha l’ultimo incontro del seminario nazionale in programma il 15 novembre, ha già mandato a giugno un documento di 130 pagine per dire che nessuno dei suoi otto siti è idoneo. La Toscana ha fatto lo stesso un mese dopo completando un esempio più unico che raro di schieramento bipartisan e lasciando i rappresentanti locali di Legambiente all’opposizione di se stessi. Non solo perché sostengono che il deposito va fatto, purché altrove e non è chiaro dove, ma anche perché la Cnapi manca di un altro acronimo importante, la Vas o valutazione ambientale strategica, prevista a valle della scelta del sito.
Intanto che si progettano parchi e depositi, Sogin non ha ancora risolto i suoi problemi di indebitamento (371 milioni del 2020). Anche i costi rimangono ai livelli abituali, in particolare quelli del personale che l’anno scorso è arrivato a 89 milioni di spese con 1148 dipendenti. Per adesso, il bilancio chiude in attivo per 7 milioni di euro. Ma il grosso dei ricavi continua a venire dalle bollette. Fontani, intanto, continua a cambiare l’organigramma come se avesse davanti due mandati triennali anziché due mesi. Sono operazioni che non accelerano i lavori ma la fretta in Sogin è un rischio a bassissima intensità.