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Economia
dicembre, 2021

Così inflazione e banche divorano i soldi fermi sul conto

Con l’aumento del costo della vita il rendimento dei depositi finisce sotto zero. E gli istituti di credito propongono ai clienti investimenti alternativi che non sempre hanno costi e rischi alla portata di tutti

L’offensiva dei banchieri ha preso velocità in queste settimane di fine anno. Con l’inflazione che viaggia a ritmi mai visti nell’ultimo quarto di secolo, i manager della finanza nostrana, quelli a capo dei grandi istituti di credito, vedono a portata di mano una straordinaria opportunità di guadagno. In palio ci sono i risparmi degli italiani. Un fiume di soldi che in tempi di Covid-19 si è riversato negli istituti di credito.

 

In meno di due anni, da quando la pandemia ha sconvolto l’economia mondiale, i depositi bancari degli italiani sono aumentati di oltre il 15 per cento, circa 220 miliardi in più: ci sono 1.800 miliardi di euro fermi sui conti correnti in mancanza di alternative, oppure per prudenza in vista di un futuro incerto, oppure ancora nel timore di perderli per via degli alti e bassi sui mercati. Denaro che rende poco o nulla, per effetto dei tassi d’interesse prossimi allo zero. Anzi, ora che i prezzi hanno ricominciato a crescere dopo una gelata che durava da decenni, quei soldi perdono valore ogni giorno che passa.

 

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«Una soluzione c’è», predicano i banchieri. «Affidateci i vostri risparmi e noi vi garantiamo rendimenti ben superiori al tasso d’inflazione». Ed ecco, allora, che fioccano oneri e balzelli vari con l’obiettivo di rendere meno conveniente il classico conto corrente. Commissioni maggiorate sui prelievi al bancomat. Rialzi a raffica per i costi di tenuta conto. Tagli anche sotto lo zero dei rendimenti dei depositi. E poi inviti pressanti, via web ma anche per telefono, a comprare azioni e prodotti finanziari assortiti. Se un numero crescente di correntisti deciderà di cambiare abitudini, di affrontare il rischio di investire una parte crescente dei propri capitali, i primi a guadagnare saranno proprio i banchieri, che dalle commissioni sul risparmio gestito possono lucrare quote di profitto ben superiori rispetto alla semplice amministrazione del conto. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa, il più grande gruppo finanziario del Paese, lo ripete a ogni incontro con gli analisti: «A garantire la crescita della banca nei prossimi anni sarà l’attività di gestione del risparmio». Un settore che già nei primi sei mesi dell’anno ha prodotto quasi il 60 per cento dei profitti dell’istituto guidato da Messina.

 

Lo scenario sta cambiando a gran velocità, ma «molti clienti ancora non percepiscono il rischio, faticano a rendersi conto che l’inflazione in qualche modo li deruba dei loro risparmi», sostiene Andrea Ragaini, vicedirettore generale di Banca Generali con la responsabilità, tra l’altro, sulla gestione dei patrimoni. Con le Borse che continuano a correre, il richiamo dei mercati finanziari suona in effetti più che allettante. Nell’arco dell’ultimo anno tutti i principali listini mondiali hanno fatto segnare rialzi importanti (in Italia siamo al 20 per cento circa), con rare ed episodiche correzioni al ribasso. Non è affatto detto, però, che la cavalcata dei mercati prosegua anche in futuro, a maggior ragione dopo che gli indici hanno macinato record su record. Potrebbe anche accadere che «il grande afflusso di liquidità in fuga dai depositi finisca per gonfiare eccessivamente le quotazioni azionarie esponendo i risparmiatori a possibili pesanti perdite», ammonisce Giorgio Di Giorgio, professore di Teoria e Politica monetaria alla Luiss di Roma. In questo caso a rimetterci sarebbero i clienti, mentre gli istituti di credito potrebbero comunque contare sulle ricche commissioni pagate dagli investitori a caccia di rendimenti più elevati.    

 

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Il pressing dei banchieri ha anche un’altra spiegazione. Tutto quel denaro fermo nei conti correnti si è infatti trasformato in un costo che pesa sul conto economico degli istituti. Va tenuto presente, infatti, che solo una parte dei capitali raccolti dalle banche prende la via dei prestiti alle aziende oppure viene investito in titoli. Il resto rimane parcheggiato nei forzieri della Bce a Francoforte che però su quelle somme applica un tasso negativo dello 0,5 per cento su base annua. 

 

L’eccezionalità del momento è ben spiegata dalle statistiche più aggiornate della Banca d’Italia che segnalano il singolare andamento del rapporto tra raccolta e impieghi degli istituti. Una decina di anni fa, all’epoca della grande crisi del debito sovrano, i prestiti bancari superavano i depositi della clientela del 15 per cento circa. Questa percentuale si è ridotta con l’andar del tempo e all’inizio del 2019 i due valori erano all’incirca pari. Con l’esplosione della pandemia, il rapporto, denominato funding gap, si è invertito. Adesso il valore dei conti correnti supera quello degli impieghi di oltre il 7 per cento, pari a circa 150 miliardi di euro. È questo l’effetto più evidente del forte incremento della propensione al risparmio, che in Italia è cresciuta fino a raddoppiare. La quota di reddito che viene messa da parte è passata dall’8 per cento circa del primo trimestre del 2020 fino a un massimo del 16 per cento toccato nel marzo scorso, per poi ripiegare leggermente intorno al 15 per cento nel secondo trimestre dell’anno, quando i consumi hanno accennato a una prima ripresa dopo la gelata provocata dal virus. «Circa un terzo delle famiglie afferma di essere riuscito ad accantonare qualche risparmio a partire dall’inizio della pandemia», si legge nell’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia, pubblicato in ottobre. I risparmi sono aumentati anche perché le misure di welfare varate dal governo hanno fornito una rete di sicurezza che ha garantito un reddito a una quota importante di lavoratori. D’altra parte, per molti mesi, tra lockdown e restrizioni varie, è diventato più difficile spendere, mentre la cappa di incertezza sull’evoluzione dell’economia ha scoraggiato gli investimenti.

 

Adesso però, con il ritorno dell’inflazione, quei soldi accantonati a tasso zero sul conto in banca producono perdite per il bilancio famigliare. Lo stesso, a ben guardare, vale anche per i titoli di stato. Le emissioni a breve e medio termine, fino a cinque anni, viaggiano da tempo in territorio negativo. In altre parole, chi presta soldi allo Stato, in cambio della ragionevole certezza di vedersi restituire il proprio denaro, deve essere disposto a versare un obolo al Tesoro. Un esempio: i Btp a due anni collocati a fine novembre offrivano un interesse pari a meno 0,26 per cento. La situazione non migliora granché se si scelgono scadenze più lunghe. «Un Btp a dieci anni rende meno dell’uno per cento», osserva Alessandro Foti, amministratore delegato di Banca Fineco. Questo significa che l’inflazione si mangia per intero il rendimento. E il saldo finale è sotto lo zero. Secondo le ultime stime, infatti, l’indice dei prezzi al consumo per il 2021 dovrebbe far segnare un aumento intorno al 2 per cento, che tiene conto delle fiammate al rialzo di questi ultimi mesi.

 

Quanto durerà? I comunicati delle banche centrali, compresa la Bce, definiscono «temporanea» l’onda inflattiva, causata soprattutto dai rincari dei prezzi dell’energia. In Italia, per dire, i beni compresi in quest’ultima categoria, come per esempio le bollette dell’elettricità o del gas, hanno fatto segnare un rincaro del 30,7 per cento su base annua in novembre, che si somma all’aumento del 24,9 per cento di ottobre. I picchi delle ultime settimane sono destinati a rientrare nell’arco al massimo di qualche mese, rassicurano da Francoforte. «Questo però non significa che la situazione sia destinata a tornare quella del periodo precedente la pandemia», prevede Foti. Lo scenario più probabile, quello accreditato da una larga maggioranza di analisti, vede i prezzi in costante aumento di qualche punto percentuale. Sembra invece da escludere una stretta da parte della Bce, che porterebbe a un rialzo dei tassi con l’obiettivo di raffreddare la crescita dei prezzi. Un intervento di questo tipo avrebbe infatti anche l’effetto di ostacolare la ripresa dell’economia, che nonostante il rimbalzo registrato nel 2021 deve ancora ritornare ai livelli pre-covid. Piuttosto è possibile che anche la Bce, seguendo quanto già annunciato a Washington dalla Fed, entro la fine dell’anno prossimo riduca il ritmo e l’entità degli acquisti di titoli di stato sui mercati. Acquisti che hanno pompato liquidità nel sistema contribuendo a tenere bassi i tassi d’interesse. 

 

C’è poco da fare, allora. I risparmiatori dovranno convivere con l’inflazione ancora a lungo. E se lasciare i soldi fermi sul conto rischia alla lunga di trasformarsi in un salasso, investire sui mercati finanziari sembra l’unica scelta sensata per chi vuol difendere il potere d’acquisto del proprio denaro, anche se ovviamente espone il risparmiatore a rischi ben maggiori. Non è un caso che già nel corso di quest’anno la raccolta dei fondi d’investimento sia tornata a crescere a gran ritmo. Nel terzo trimestre, chiuso a settembre, le sottoscrizioni hanno raggiunto i 18,5 miliardi per un totale di 70 miliardi nell’arco di nove mesi, il risultato migliore dal 2017, grazie al grande afflusso di denaro proveniente dai conti correnti.

 

«Ma attenti alla bolla speculativa», avverte Di Giorgio. La Borsa di Milano, con pochi titoli e scambi concentrati su una rosa ristretta di grandi marchi, è molto esposta a questo tipo di rischio.

 

Bisognerebbe infatti creare un mercato azionario specifico per le piccole e medie imprese, che dovrebbero effettuare rigorose (e costose) analisi contabili e gestionali ogni anno: «Significherebbe un radicale cambio di passo per la miriade di piccole e piccolissime aziende del paese», commenta Andrea Ferrari, presidente dell'Associazione Italiana Dottori Commercialisti, che continua: «Un tale cambiamento consentirebbe al mercato di avere imprese più sane e meglio strutturate. Non solo, le società avrebbero a disposizione capitale fresco da investire per crescere e per i risparmiatori ci sarebbe la possibilità di investire direttamente i propri risparmi in imprese floride, garantiti dalle regole del mercato azionario». Ma l’allargamento del listino azionario con la quotazione di nuove aziende in crescita, non sembra davvero a portata di mano.

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