Pandemia
Nessun colpevole per la strage del Trivulzio, quel trasferimento nella Rsa che provocò 103 morti
Chiesta l’archiviazione dell’inchiesta sulla scelta di spostare i pazienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni alla casa di riposo per anziani, a marzo del 2020. Il medico che denunciò i rischi di propagare il contagio è stato licenziato. I familiari delle vittime: i nostri cari in balia del virus
Il 13 marzo 2020 decine di ambulanze attraversano Milano dalla periferia nord fino all’elegante quartiere Washington. Destinazione Pio Albergo Trivulzio, la storica casa di riposo milanese. Trasportano una ventina pazienti dimessi dall’ospedale di Sesto San Giovanni, ormai pieno di malati Covid come tutti i nosocomi lombardi. Nessuno ha fatto loro un tampone, merce rara in quei giorni. Ma occorre comunque liberare posti letto nei reparti al più presto. E una delibera della giunta regionale ha appena reso possibili i trasferimenti di pazienti dagli ospedali verso altre strutture assistenziali tra cui le Rsa: la scelta più criticata della giunta lombarda, i malati e gli anziani uniti in un abbraccio spesso mortale. L’Italia è da poco entrata in lockdown. Dieci giorni dopo, nella casa di cura milanese partono i contagi culminati in una strage: almeno 103 morti considerati «correlati al Covid-19» dai periti della Procura di Milano, nel periodo che va da gennaio a metà aprile del 2020.
La vicenda è ricostruita nel dettaglio dall’inchiesta milanese per epidemia e omicidio colposo al Pio Albergo Trivulzio di cui i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi hanno chiesto l’archiviazione lo scorso ottobre: impossibile, secondo i magistrati, provare il nesso causale tra le condotte dei vertici dell’istituto e le morti degli anziani. Ma nelle carte emerge anche la storia un medico che a tutto questo si oppose, pagando un conto salato: il dottor Carlo Montaperto, direttore medico di presidio dell’ospedale di Sesto, all’epoca presidente dei primari lombardi. L’unico dottore che si mise di traverso per cercare di fermare i trasferimenti, come racconta lui stesso agli investigatori della Guardia di finanza il 5 ottobre 2020, ricostruendo quei momenti drammatici: «Da mie disposizioni nessuno doveva uscire dall’ospedale - dichiara il direttore medico nel verbale - poiché nessun paziente era stato testato e quindi non c’era alcuna evidenza della loro negatività al tampone». Ma le dimissioni di massa furono avviate ugualmente, ordinate «con un messaggio Whatsapp» da un altro dirigente ospedaliero. «Non avrei mai potuto autorizzare quei trasferimenti perché si trattava di pazienti non stabilizzati, che non potevano essere trasportati - spiega a L’Espresso il dottor Montaperto -. In seguito mi è stato riferito che la maggior parte di loro, nel giro di una settimana o dieci giorni, sarebbe morta».
Un paio di mesi dopo quel «no», per il primario di Sesto cominciano i guai. Il 20 maggio scopre che è stato aperto un procedimento disciplinare contro di lui in seguito a un sopralluogo effettuato nei reparti il giorno dopo i trasferimenti dei pazienti al Trivulzio: l’azienda per cui lavora lo accusa di una serie di omissioni in relazione all’emergenza Covid. Contestazioni che gli costeranno il licenziamento, da lui ritenuto ingiusto e contro cui si sta opponendo in tutte le sedi. Ora, da presidente lombardo dell’associazione nazionale primari ospedalieri, è diventato medico di famiglia in un paesino dell’hinterland milanese in attesa del verdetto dei giudici. «Sono stato raggiunto da una serie di accuse false e pretestuose - prosegue Montaperto - come sono convinto riuscirò a dimostrare nei giudizi. Ma era giusto opporsi a quelle dimissioni, e i medici che avevano in cura quei malati erano d’accordo con me: sulle cartelle cliniche dei loro pazienti hanno scritto ‘Trasferito contro parere medico su ordine del primario’. Fu un episodio drammatico».
L’arrivo dei pazienti da Sesto San Giovanni è considerata dai pm di Milano, che hanno cercato di ricostruire l’ingresso del contagio nel Pio Albergo Trivulzio, una «circostanza suggestiva». Nella Rsa milanese infatti l’epidemia non è partita all’inizio di marzo, come nel resto della Lombardia, ma verso la fine del mese. «Si può osservare uno sfasamento di circa 15 giorni tra l’inizio dell’incremento di mortalità nella popolazione milanese generale - scrivono i periti dei pm - e l’incremento dei decessi Covid correlati entro la struttura». Gli esperti sottolineano pertanto che «si deve tener conto del trasferimento nella seconda settimana di marzo di 17 pazienti provenienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni dichiarati non Covid (sembra senza aver eseguito il tampone) tre dei quali sono tuttavia risultati successivamente positivi». Tuttavia le cause dello sfasamento temporale non sono identificabili «con sufficiente precisione e ragionevole certezza». Per questa ed altre ragioni il fascicolo, che vede indagato l’allora direttore generale Giuseppe Calicchio, secondo gli inquirenti va archiviato. Sul suo conto, nonostante la iniziale «sottovalutazione del rischio» e l’ottica volta «a occultare più che a risolvere le difficoltà», non è emersa «alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari» in relazione ai decessi.
Non ci stanno i legali dei famigliari delle vittime, secondo i quali «buona parte degli elementi che dimostrano la necessità di celebrare un processo emergono già dalla richiesta di archiviazione: dalla ritardata chiusura delle visite esterne alla ritardata, omessa, incompleta fornitura di dispositivi di protezione, tracciamento dei contagi e isolamento dei positivi, formazione dei dipendenti». Secondo gli avvocati Luca Santa Maria e Luigi Santangelo meriterebbero un approfondimento processuale anche «il divieto, pare inizialmente impartito dalla dirigenza del Pat sotto minaccia di sanzioni disciplinari, di utilizzo di Dpi autonomamente procurati dai dipendenti» e la prescrizione «di utilizzare la stessa mascherina per più giorni». Condotte che però, secondo i pubblici ministeri, si inseriscono in un più ampio contesto di impreparazione nazionale, e nella generale mancanza di procedure e di mezzi per affrontare la pandemia. I famigliari delle vittime, che si sono costituti nel comitato Felicita, chiedono di accertare la verità sulle morti al Trivulzio e di non dimenticare «un’umanità perduta nella maniera più straziante, nella più totale solitudine, senza comprendere quanto stava accadendo, senza affetti e senza un ultimo saluto».