Nel dopoguerra un doppio patto, italiano ed euroatlantico, salvò il paese. Oggi va ripetuto

La fiducia al governo Draghi dalle Camere consolida aspettative e speranze di varia natura. Una condizione delicata e per molti versi inedita: da un lato un’ampia e variegata maggioranza parlamentare che abbraccia quasi tutto l’arco costituzionale, dall’altro l’identificazione implicita e ricorrente di una sintesi obbligata nel vertice dell’esecutivo.

 

Tutto passa per Mario Draghi, ogni soluzione possibile, ogni percorso di rinnovamento, ogni strada che possa rilanciare le ragioni e le possibilità di una comunità nazionale. Un crinale delicato e complesso che mette in gioco una preziosa risorsa della Repubblica come se fosse un’ultima spiaggia, un appello ultimativo a fronte del fallimento di una classe dirigente e dei tornanti inimmaginabili di una legislatura incerta, dagli esiti a dir poco imprevedibili. E così, la nuova pagina che si apre in questi giorni carica le spalle di chi assume responsabilità di governo ben oltre i confini ragionevoli e verosimili.

 

Sarebbe meglio distinguere compiti e funzioni cercando nelle maglie di una democrazia fragile e incerta gli spazi per un rilancio convincente. La ricerca appassionata e convinta di un canale diretto, senza mediazioni, rischia di produrre effetti dirompenti deresponsabilizzando poteri e vincoli nella disarticolazione strisciante dei percorsi della politica.

 

La sfida è invece quella di riaprire canali di comunicazione nella convinzione che la forza di una maggioranza parlamentare non equivale alla partecipazione di tanti e che i costi di un’ennesima battuta d’arresto si rovescerebbero sulla tenuta di un sistema in caduta libera. Tornano con insistenza i raffronti con pagine del nostro passato, più o meno recente. Gli anni della ricostruzione sono chiamati in causa con paragoni arditi: lo sforzo comune per rinascere, gli aiuti imponenti del Piano Marshall, le forme di collaborazione e sinergia tra il quadro interno della nascente Repubblica e il contesto internazionale della guerra fredda. Una sorta di doppia costituente, tra la carta fondamentale del 1948 e il nascente sistema internazionale (Guido Formigoni, “Storia d’Italia nella guerra fredda”, Mulino, 2016) del dopoguerra. Uno sguardo a ritroso con il rigore della prospettiva storica può mettere in risalto analogie e differenze ben al di là delle semplificazioni del momento.


1. Il nesso nazionale-internazionale condiziona l’intero itinerario dell’Italia repubblicana: difficile sottrarsi alle reciproche interazioni, pericoloso sottovalutarne la portata. Allora, negli anni della ricostruzione, il terreno comune di una cittadinanza in divenire rimane un punto di equilibrio condiviso. La Repubblica dei partiti traccia le compatibilità possibili costruendo percorsi e opportunità. Persino negli anni dello scontro più duro, nella contrapposizione frontale tra mondi, linguaggi, campi d’appartenenza, tale perimetro non viene superato né messo in discussione.

 

Un patrimonio comune coltivato dalla partecipazione diffusa, distribuito su diversi ambiti, capace di reggere la sfida del tempo e del cambiamento continuo. La doppia fase costituente, tra democrazia di massa e conflitto bipolare, si basa sulla capacità di tenere insieme svolte politiche e processi sociali, ruolo dei partiti e comportamenti diffusi. Una strada che s’interrompe quando le forze politiche limitano la propria capacità inclusiva avvitandosi in degenerazioni senza ritorno e quando la società civile perde di vista l’orizzonte prevalente dell’interesse generale. Il ritorno delle competenze può essere un segnale importante, proprio in queste ore. Chiudere la pagina della cultura come disvalore, dell’improvvisazione fatta sistema: in risalto la serietà di chi lavora per il bene collettivo rompendo con i recinti delle appartenenze di parte o con le facili scorciatoie dei nuovi inizi annunciati.

 

Il segno di allora nella scelta delle destinazioni per investimenti mirati rimane un tassello significativo: la politica, le istituzioni, i tecnici e le competenze al servizio delle urgenze della ricostruzione. Sarebbe un piccolo grande segnale il recupero di una spinta collegiale, l’individuazione di una prospettiva che sia capace di superare il ristretto confine dell’emergenza di questi mesi. In fondo la pandemia ha contribuito a chiarire i contorni e le debolezze di culture egoistiche o autosufficienti; la stessa percezione di un rischio incontrollabile, il solco di un destino comune per l’umanità ha messo in causa il linguaggio dell’odio e della prevaricazione violenta. L’impresa collettiva di una salvezza nazionale, dalle parole del Presidente Mattarella arriva nel cuore della società italiana, dove la responsabilità individuale (anche quella dei comportamenti quotidiani) può incontrare un disegno di rilancio, un progetto per il futuro.


2. L’Europa è parte fondante di tale possibile ripresa: in termini di sostegno e di aiuto (Next Generation EU), nella opportunità di rilanciarsi come attore globale (sui vaccini nella trattativa diretta con i giganti delle industrie farmaceutiche), nella costruzione di uno scenario geopolitico inedito.

 

Mario Draghi non rappresenta soltanto (e non è certo poco) una figura autorevole riconosciuta, una competenza preziosa su scala globale, uno strenuo difensore delle ragioni dell’Europa (basti il richiamo alle sue battaglie sull’Euro).

 

Il suo profilo è segnato dal solco della partnership atlantica alle prese con i primi passi dell’era Biden e con la difficile strategia di un rilancio della proiezione statunitense. Escono di scena protagonisti e giganti degli ultimi anni, la lunga stagione della signora Merkel volge al tramonto, le elezioni presidenziali in Francia sono in calendario per l’anno prossimo, gli assetti del vecchio continente appaiono scossi dagli effetti dirompenti della crisi da Covid-19. Lo scenario vira verso una trasformazione repentina e inesorabile, la competizione con la Cina e la spinta di mondi emergenti spazzano via ogni conservatorismo residuo. Lo spazio che si apre è quello dei costruttori di possibilità e speranze, come avvenne agli albori del processo d’integrazione continentale sulle ceneri delle due guerre mondiali.

 

Draghi può essere un punto fermo, un ponte dialogante, un riferimento globale e condiviso; per l’Italia in Europa e per l’Europa nel mondo. Si tratta di una svolta radicale che affonda le proprie radici nelle debolezze dei decenni che abbiamo alle spalle, a partire dalla dialettica tra centro destra e centro sinistra nello scorcio conclusivo del Novecento.

 

Un conflitto nitido tra visioni e programmi alternativi si regge sulla condivisione di regole e compatibilità. Troppe oscillazioni di un pendolo che è apparso impazzito, non tanto nelle alternanze di governo (ben vengano), quanto nei riferimenti fondamentali agli assi della politica estera, alle trame della diplomazia multilaterale piegata agli interessi di parte o ai disegni di subalternità o potenza (il teatro di guerra iracheno è un esempio lampante).

 

Al di là delle schermaglie di questi primi giorni di vita della nuova maggioranza, un dato più profondo potrebbe farsi strada nella geografia del sistema politico. Una destra che fino a pochi mesi fa parlava di uscita dall’Euro, strizzava l’occhiolino agli interessi del Cremlino o alle strategie dei paesi del gruppo di Visegrad si allinea alle scelta del Recovery per sostenere l’impianto del nuovo esecutivo. Se così fosse il voto delle camere sarebbe un bel segnale di fiducia.