Economia
marzo, 2021

La fine del liberismo e il ritorno della spesa pubblica

Joe Biden negli Usa, Mario Draghi in italia. È il grande ritorno degli investimenti di Stato, esultano i keynesiani. Tanti i convertiti tra i sostenitori dell’austerità. Ma per altri economisti è solo l’effetto della pandemia

Dall’inizio di quest’anno è già cambiato il mondo. Almeno dal punto di vista economico. Il 20 gennaio si è insediato il 46° presidente americano, Joe Biden, e già ha fatto approvare al Congresso un piano da 1900 miliardi di dollari di aiuti e “ristori” che perfino alcuni esponenti democratici definiscono “eccessivo”. In Italia, il 13 febbraio Mario Draghi ha giurato da primo capo di un governo tecnico dopo Monti ma a differenza di quest’ultimo con il compito di spendere gli ingenti fondi pubblici garantiti dall’Europa alla ripresa, anziché di tagliarne come invece doveva fare il professore della Bocconi nonché senatore.

 

Ovunque si vuol cogliere l’ultimo periodo di inflazione sotto controllo perché lo Stato entri nell’economia con sovvenzioni, contributi, ristori, partecipazioni. Dimenticate il monetarismo neoliberista anti-statale, quello del «mercato che risolverà tutto» di Milton Friedman e della scuola di Chicago degli anni ’70, caro alla destra conservatrice Usa e ancora di più alla Germania che l’aveva imposto all’Europa: si torna a John Manyard Keynes e alla teoria che solo l’intervento pubblico può sanare le situazioni più gravi a costo di livelli di debito azzardati. «Intendiamoci, sia Biden che Draghi sono centristi nel dibattito economico, non certo radicali», dice Kenneth Rogoff, l’economista di Harvard che più di chiunque altro mette in guardia da sempre contro i rischi del debito pubblico. Per di più il consigliere economico di Draghi è Francesco Giavazzi, economista di provata fede conservatrice, anch’egli bocconiano, che starà sicuramente attentissimo a ogni singolo euro da spendere.

 

«Tutti però si rendono conto che siamo in una catastrofe», riprende Rogoff, «non in una normale recessione. Si punta sull’intervento statale non per convinzione ma per necessità: il debito ha dei costi ma i rischi nel lesinarlo sono di gran lunga maggiori. Non c’è altro da fare per evitare un’instabilità rovinosa. Ma la situazione si stabilizzerà entro pochi anni: vedremo allora come comportarci». Peraltro, ricorda James Galbraith, il figlio di John Kenneth Galbraith, l’economista di JFK, a sua volta docente di economia internazionale all’University of Texas di Austin, «a pensarci bene, in fondo gli americani sono sempre stati keynesiani: perfino Nixon durante la crisi petrolifera del ’73 invitava i suoi concittadini a non deprimersi e non smettere di consumare, e identica raccomandazione ha fatto George W.Bush all’indomani dell’11 settembre. Sono molto più conservatori gli europei, sotto la trazione dei tedeschi che vedono il debito come un peccato». Ma ora anche Angela Merkel, pur “con juicio”, si è tanto convinta del cambio di passo da essere stata la prima sponsor del Next Generation Eu, il maxi piano europeo da 750 miliardi (209 per l’Italia).


Il cambio di paradigma segna un ritorno alle origini: «Nella fase di formazione dei mercati nazionali, la regolamentazione statale prevaleva ancora sull’autoregolazione», spiega Andrea Boitani, economista della Cattolica di Milano che sta per dare alle stampe (con Laterza) il saggio “L’illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato”. «Soltanto nel 1830, come scriveva lo storico Karl Polanyi», ricorda Boitani, «il liberalismo economico, soprattutto sulla base degli scritti di Adam Smith di fine ’700, scoppiò con passione di crociata e il “laissez faire” divenne un credo militante pur in modo e misura diversa tra paesi anglosassoni e europei continentali».


Quando Keynes arrivò sulla scena alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, si batté contro oppositori di ogni ordine e grado, e contro le dottrine di economisti rinomati nella storia come Adam Smith, l’inventore a fine ’700 della “mano invisibile” dei mercati. Fra i contemporanei, proverbiale la rivalità con Friedrich von Hayek della London School of Economics: alla fine Keynes prevalse e fornì la base intellettuale al New Deal con cui Roosevelt portò l’America fuori dalla Grande Depressione prima della seconda guerra mondiale.

 

Nel dopoguerra la sua teoria divenne dominante, senonché negli anni ’70 ci fu una nuova conversione: «Si affermò il monetarismo “neoclassico” di Friedman che riuscì a convincere i politici, dalla Thatcher a Reagan, che tagliando le tasse ai ricchi, questi avrebbero investito, creato occupazione, e trasmesso ricchezza alle classi inferiori», dice Paolo Guerrieri, docente a San Diego e a Sciences Po. «Questa fede è durata fino a Trump e ha influenzato pensiero e comportamenti in Europa, trovandovi terreno fertile». Troppo breve la parentesi di Obama, spiega Beniamino Quintieri, economista internazionale di Tor Vergata, «che è stato talmente subissato di critiche dall’establishment finanziario e ostacolato dalla maggioranza avversa al Congresso, che molte sue riforme sono rimaste sulla carta. Si è perpetuato l’equivoco che Keynes fosse “tutta spesa” e null’altro, mentre era un eclettico e pragmatico osservatore dei cambiamenti. Anche Draghi è un eclettico, e speriamo altrettanto pragmatico». “Whatever it takes” insomma deve continuare a essere il suo motto.


«Non è il tempo di troppe distinzioni ideologiche», taglia corto Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. «L’intervento pubblico è come un ombrello, che bisogna aprire quando piove, quindi prima di tutto sapere che c’è e utilizzarlo. Oggi non piove, diluvia. Poi quando tornerà il bel tempo, si potrà riporre». La pandemia è anche l’occasione, riflette Michael Spence, economista di Stanford, Nobel nel 2001, «per combattere gli effetti negativi della globalizzazione e della digitalizzazione.


Sta emergendo una più equilibrata visione dei ruoli dello Stato e del mercato, e si è capito che non sempre quest’ultimo, come voleva il pensiero forte, ha una soluzione ottimale. Per una società in salute, servono un mercato dinamico e uno Stato ben gestito. Certo, anche il debito pubblico ha dei limiti, per quanto meno ristretti di quello che si credeva». La verità, dice Giorgio Di Giorgio, ordinario di teoria monetaria alla Luiss, «è che all’inizio ci hanno provato le banche centrali a sostenere le economie, ma hanno esaurito le cartucce e la crisi è talmente profonda che non possono che intervenire gli Stati». Si allontanano i tempi raccontati da Jean-Paul Fitoussi, il guru di Sciences Po: «Non ci crederete ma anche nella nostra università, culla del pensiero illuminista e progressista, se volevo garantire a uno studente un futuro nel mondo della finanza o della politica, evitavo di assegnargli una tesi su Keynes. Era come un’infamia, un marchio di “comunista”. Con la parola “keynesiano” vista come un’eresia, era piano piano tramontato anche il pensiero sottostante».

 

Ma ora sulle posizioni pro-keynesiane si stanno allineando anche le fonti più insospettate. A fine gennaio il Financial Times ha ammesso di aver difeso e incoraggiato politiche così rigide verso alcuni Paesi come la Grecia «da aver causato più danni di quanti se ne siano risolti». «Un mea culpa esplicito da parte della cittadella dell’establishment finanziario», ironizza Robert Skidelsky, economista dell’università di Warwick, autore di una monumentale biografia in tre volumi di Keynes. «La politica di intervento pubblico è l’unico gioco possibile». A cambiare idea è perfino il Fondo Monetario, “poliziotto cattivo” della sorveglianza sui conti, sancta sanctorum dell’austerity del “Washington Consensus” fra gli economisti (il Fmi ha sede nella capitale Usa). Macché: a fine gennaio, nel presentare l’ultimo Fiscal Monitor, il capo delle politiche di bilancio del Fmi, Vitor Gaspar, ha detto che il ruolo dei governi deve essere di stimolo alle economie senza badare a spese, per aiutare la ripresa e ridurre la disoccupazione. Non è finita: Gaspar ha approvato la sospensione in Europa dei vincoli di bilancio, invitato i governi a una «riflessione critica» sulle politiche di questi anni e concluso che il cambio di sentimento del Fmi («change of heart») è dovuto alla considerazione «olistica» (sempre parole sue) che le circostanze sono talmente cambiate che va ripensato tutto il quadro fiscale. «Più esplicito di così non poteva essere», commenta Allen Sinai, il decano degli economisti di Wall Street. «Il Fmi è pieno di studiosi così come i governi Biden e Draghi. La collaborazione incrociata di questi team altamente preparati porterà alle scelte più razionali ed efficaci per uscire dalla crisi. Se ne sentiva il bisogno, almeno qui in America, dopo il pressappochismo nell’era Trump».


Ma il ritrovato ruolo dello Stato, in Italia, porterà a un aumento dell’influenza pubblica nell’industria? «Per la verità», obietta Lorenzo Bini Smaghi, economista e banchiere di scuola Bankitalia-Bce come Draghi, «non è che in Italia il liberismo abbia mai fatto molta strada. Le imprese pubbliche sono già molte, influenti e invadenti. E quelle private troppo poche, almeno di grandi dimensioni. Sarà anche colpa della classe imprenditoriale nostrana, sottocapitalizzata e timida, ma un peso ce l’ha la scarsa “recettività” del nostro ambiente economico. Anche in Francia ci sono aziende pubbliche, ma poi ci sono Lvmh, L’Oreal, Sanofi, i grandi gruppi delle costruzioni». Insomma, anche con un’ulteriore espansione della mano pubblica bisogna stare attenti: è il vero test per Draghi.

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