Prometeo, Rosa Luxemburg, i comunisti spagnoli, la Comune: i miti fondativi dei progressisti

In una bella prefazione a una piccola raccolta di scritti di Victor Serge, “La rivoluzione russa” (appena uscita con Bollati Boringheri), lo storico David Bidussa ricorda un episodio di un romanzo di questo anarchico di origini russe, nato in Belgio, sedotto dal bolscevismo, poi oppositore e prigioniero di Stalin, infine espulso dall’Urss e morto in Messico nel 1947.

 

In “Anni spietati” dunque il protagonista, un rivoluzionario di professione trasformato in agente dei servizi segreti del regime sovietico, decide di abbandonare l’organizzazione davanti al Muro dei Federati. Il Muro dei Federati, a sua volta, è il luogo nel cimitero di Père-Lachaise dove vennero fucilati centosettantasette miliziani della Comune di Parigi. Spiega Bidussa che l’immagine di quel muro non evoca la sconfitta ma al contrario la speranza, perché quegli uomini caddero «con tutto l’avvenire davanti a loro». La Comune, fino a poco tempo fa era uno dei miti fondanti e fondamentali delle sinistre del mondo intero. E non l’unico fra i miti.

 

Ma procediamo con ordine. Cominciando da Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini, per poi essere punito da Zeus. Ecco, nell’iconografia delle sinistre, a partire della seconda metà dell’Ottocento, appare spesso il richiamo a questo mito. Ci sono, nelle riviste dei rivoluzionari, disegni di un titano muscoloso che spezza le catene: talvolta con la faccia rivolta verso il cielo e gli occhi che guardano l’accecante sol dell’avvenire.

 

Quel titano è sia operaio - che nei canti dei movimento dei lavoratori ebraico viene chiamata addirittura “il nuovo Messia” - sia appunto Prometeo. Il lavoratore (maschio) e il titano si amalgamano in un simbolo, che dà coraggio e trascende la realtà. Si tratta infatti dell’immagine del progresso, inteso come una strada verso il benessere dell’umanità. Certo, nell’uso di quel mito c’era anche l’idea di soggiogare la natura al volere degli umani, ma si trattava prima di tutto di un richiamo a un atto di ribellione contro il privilegio dei dominatori.

 

Quando si parla di Spartaco, a molti viene in mente il volto dolente ma da duro di Kirk Douglas che in un strepitoso film di Stanley Kubrick (del 1960) incarnava lo schiavo della Tracia, gladiatore ribelle che dichiarò la guerra a Roma. Anche lui, ovviamente, sconfitto. Il nome di quell’uomo in rivolta («un uomo che dice no», per parafrasare Albert Camus), è stato usato subito dopo la prima guerra mondiale da Rosa Luxemburg e dai suoi seguaci. Anche loro sconfitti, lei uccisa, dai soldati dell’estrema destra.

 

Di quella rivolta ha scritto Furio Jesi, intellettuale, scomparso nel 1980 e fra i più interessanti del panorama europeo dell’epoca, in “Spartakus”, non solo per analizzare i fatti, quanto per ricordare, sull’esempio della rivolta degli spartachisti, quanto il bisogno del mito (e della rivolta, tema ripreso poi in un recente libro di Donatella Di Cesare) faccia parte della natura umana. In ogni caso, se Prometeo è il progresso, Spartaco è colui che si mette a capo di una congrega di fuorilegge, fuggiaschi, gente che viene da vari luoghi della Terra e che osa a sfidare le truppe di uno Stato potentissimo.

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Ma forse il mito più forte per la sinistra è stata la Comune di Parigi. Un po’ perché, paradossalmente, il mito politico di sinistra appunto (a differenza di quelli “primordiali” di cui fa uso la destra radicale) è tanto più sentito quanto meno arcaico. Marx così come gli autori anarchici erano stati i testimoni, sebbene indiretti, dei fatti.

 

Louise Michel è presente nel pensiero femminista e un film su di lei del 2008 ha vinto premi in vari festival. E comunque si trattava di un primo tentativo, per quanto fallito, di realizzare l’utopia di fratellanza e uguaglianza in Europa. Così come fino a poco fa era valido il mito della Guerra di Spagna (1936-1939): internazionalismo da un lato e, di nuovo, la sconfitta, non senza che gli stalinisti abbiano intanto represso nel sangue ogni loro oppositore a sinistra.

 

Nella prefazione al libro di Serge, citata all’inizio, Bidussa ricorda la giornata del 18 marzo 1921. Mentre nelle grandi città russe veniva festeggiato il cinquantesimo anniversario della Comune, i soldati l’Armata Rossa massacravano i ribelli, marinai anarchici, nella fortezza di Kronstadt.

 

Ecco, il mito può essere ambiguo e non dà certezze sul suo uso. Ma tutti i miti citati si richiamano alla sconfitta. Sconfitta, non come la fine ma come memoria degli oppressi, come l’idea che il passato non è un libro chiuso, ma una materia che ci parla del futuro. Perché, a pensarci, l’alternativa al mito, considerato “irrazionale” proprio perché parla al cuore, è l’algoritmo, in apparenza uno strumento di analisi e di previsione che non sbaglia mai. Ma l’algoritmo difficilmente può diventare un simbolo e una bandiera.