Dopo averne seminato corposi brandelli nei suoi film, giunto all’età di 65 anni il regista Marco Bechis si è deciso a raccontare per intero in un libro la sua vita da desaparecido-sopravvissuto. Dove l’accento cade piuttosto sul secondo vocabolo, quello che lo ha accompagnato nei 44 anni successivi al sequestro per arrivare ai giorni nostri, alla scrittura come catarsi, persino come espiazione per un destino evitato che gli ha lasciato, sempre, la sensazione di un debito verso chi non c’è più. Una sindrome sull’onda di quanto già sappiamo da Primo Levi sui sommersi e i salvati, aggiornato a un genocidio più recente, quello della dittatura argentina a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.
Nei suoi taccuini, nella sua testa, Bechis ha accumulato, e soprattutto custodito come in uno scrigno, una mole impressionante di dati perché gli servissero, in un giorno indefinito, ad avere giustizia. La necessità della memoria buona. E accanto ha analizzato, come un entomologo, tutti i suoi pensieri, le reazioni, anche i sogni, analista di se stesso e della condizione particolare, perché assai minoritaria, del reduce da un campo di sterminio. Dunque obbligato ad essere perennemente un testimone.
Il libro ha per titolo “La solitudine del sovversivo” (Guanda) e muove dalla data fatale, 19 aprile 1977. Il protagonista aveva 21 anni e, come succedeva all’epoca, aveva già accumulato esperienze, nell’urgenza che si avvertiva di bruciare le tappe, superare di slancio l’adolescenza, entrare velocemente nell’età adulta e autonoma. Lo aveva aiutato una famiglia particolare, nomade e dell’alta borghesia.
Nato in Cile perché lì lavorava il padre Riccardo, manager di alto profilo, che in quel Paese alla fine del mondo si era sposato con Huguette, hostess di terra di origini svizzere. La tappa successiva, San Paolo del Brasile, era stata funestata dalla morte del fratello minore, Robertino, caduto per un incidente nella tromba dell’ascensore. Una perdita che si sarebbe riverberata successivamente in quelle dei compagni di avventura politica. Pur nelle differenze, sollecitava la stessa domanda: perché lui sì, loro sì, e io no? Naturalmente non c’è risposta capace di placare l’ansia per un senso di colpa che è poi il senso di colpa della vittima.
Abbandonata la casa maledetta di San Paolo, il successivo destino era stato Buenos Aires, finalmente la patria più riconosciuta per un’identità che si era fatta naturalmente plurale. Gli amici, la scoperta del sesso, anche la politica, prima di un trasloco mal digerito in Italia e causa di uno scontro con i genitori per il suo desiderio di tornare laggiù dove era maturato il bocciolo del suo essere uomo. Allora, negli Anni Settanta, era anche possibile che un minorenne strappasse alfine il consenso per rivalicare, da solo, l’Atlantico, per ultimare il liceo. Marco Bechis aveva già sommato tanti voli da fargli dire, in seguito, che gli aeroporti sono il posto dove si sente più a suo agio. Altro che non-luoghi.
L’aria del tempo favoriva l’impegno politico, ancor più nel Sudamerica dei colpi di Stato e dell’oppressione. E il fanciullo di buona famiglia, cresciuto con le collaboratrici domestiche, si era schierato senz’altro a sinistra. Anche se, pur nel clima dell’urgenza e delle scelte nette, non aveva mai compiutamente aderito, con la sua anima tormentata, alla lotta armata dei Montoneros che riteneva perdente visto lo squilibrio nel rapporto di forza con il regime militare. E si era ritagliato per sé un futuro da maestro elementare dei bambini indigeni delle comunità del Nord.
Così si era iscritto a una scuola serale per prendere il diploma. Ma negli anni del terrore argentino gli squadroni della morte e i loro mandanti non erano interessati ai distinguo sempiternamente cari alla sinistra, se stavano perpetrando un genocidio generazionale. Il loro scopo era estirpare alla radice un’ideologia di sinistra e dunque massacrare chiunque anche solo parzialmente ne fosse stato contaminato.
La sera del 19 aprile 1977 Marco Bechis era uscito dalla scuola abbracciato con la fidanzata Dayin. Ad aspettarlo, i sequestratori, soprattutto il “Turco” Juliàn dai folti baffi e dal gran naso, l’unico che vedrà in faccia e sarà in grado di riconoscere prima di sprofondare nel buio perenne a cui è costretto da una spessa benda. Gli mettono una 38 tra le costole, lo infilano in un Ford Falcon beige, l’auto più usata per le operazioni sporche. Dayin non l’hanno presa, è l’esile filo che lo lega ai vivi perché lo stanno portando, gli è evidente, nelle catacombe anticamera della morte.
Nel sotterraneo definito “Club Atlético” diventa il detenuto A01, numero dei lucchetti alle caviglie 190 e 191, cella singola 16. Un cieco capace di schedare solo voci, suoni, rumori. Le catene e il passo strascicato degli altri prigionieri, le urla dei torturati, la pallina da ping-pong che rimbalza sul tavolo dove si rilassano i carcerieri, il transistor acceso per gli incontri di calcio e i “goool” urlati dai radiocronisti, la voce dell’interrogatore “buono” e di quello “cattivo”. Conosce una sessione di “picana”, il pungolo elettrico usato sui corpi per indurre a parlare. Nelle lunghissime ore del sequestrato in attesa di sentenza, riflette su cosa può dire, cioè quanto per deduzioni logiche gli aguzzini già sanno, e cosa deve tacere per non compromettere compagni ancora liberi.
Risponde ai questionari imbecilli che gli sottopongono cercando di non cadere anche solo in una contraddizione che sarebbe esiziale. Riesce a staccare «un pezzetto di cemento duro lungo mezzo dito, da uno dei lati molto tagliente, la sua forma è simile alla punta di una lancia preistorica» che diventa la via di fuga nel caso non dovesse farcela a resistere, un taglio alle vene e niente più Marco Bechis. Si convince, e subito la assolve, che a fare il suo nome sia stata la bellissima compagna Muñeca e ne ha la riprova quando la ritrova in quel lager. Una volta sola ha il coraggio di scostare la benda spessa per guardare dove si trova, ne ricaverà un disegno che sarà la base per la costruzione del set del suo fortunato film “Garage Olimpo”.
Non sa quanto tempo, mesi, anni, dovrà restare recluso, ammesso che campi. Ma ecco, dopo una manciata di giorni, la svolta. «Se ne va dal papà», dice con sarcasmo un secondino.
Già, papà. Dayin ha avvertito gli amici della scomparsa di Marco e questi i genitori. Riccardo, nel frattempo diventato alto manager Fiat, e Huguette si precipitano a Buenos Aires, muovono amicizie influenti tra gli imprenditori che arrivano a perorare la sua causa presso il generale Suàrez Mason, l’uomo che controlla ogni sotterraneo nella capitale. Il quale, come un imperatore romano al Colosseo, gira il pollice verso l’alto. Non sono emerse particolari colpe e vuole evitare un incidente economico-diplomatico a un anno di distanza dai Mondiali di calcio in Argentina. È il privilegio che tormenterà Bechis per tutta la vita, quello che alimenta la domanda ossessiva: perché io sono sopravvissuto?
Non è finita. Dal carcere illegale passa al carcere legale, dove ricompare nell’anagrafe dei vivi. Dividerà una cella con il pacifista e futuro premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel. Alcuni mesi di detenzione ordinaria ed eccolo scortato fin sotto la carlinga di un aereo Alitalia, gli viene restituito il passaporto che gli presero il 19 aprile, prova evidente della connessione tra il circuito sotterraneo e quello sopra il suolo, sempre negata dalla junta. Gli uomini di scorta avvertono il pilota, «attenzione avete a bordo un terrorista».
L’Italia è l’altra patria. Dove spendere ogni spicciolo di energia per denunciare i crimini della dittatura, dedicare a quei fatti il suo talento di regista, senza però mai vincere l’inquietudine profonda che lo interroga giorno e notte. Vivere, amare, lavorare sempre con la stessa sensazione di essere inadeguato su questa terra.
Essere ritenuto un eroe per i pochi giorni da sequestrato e considerarsi talvolta un traditore per non aver fatto la stessa fine degli altri. In un dualismo assurdo se applicato al clima della costrizione. Talvolta riaffiora l’istinto al suicidio come quando dal portellone aperto di un aereo in volo sta girando una scena di “Garage Olimpo”, salvo ritrarsi impaurito quando è sull’orlo dell’abisso.
Prosegue la sua spola sull’asse Italia-Argentina e a Buenos Aires casualmente incrocia in un bar lo sguardo beffardo del “Turco” Juliàn fiero della sua impunità nell’epoca in cui due leggi (poi cassate) avevano di fatto sancito una moratoria per i delitti anche più efferati. Si pentirà di non avergli dato almeno un pugno sul muso.
Lo rivedrà in tribunale, “Turco,” nel 2010 assieme ad altri 15 imputati per le nefandezze perpetrate nel Club Atlético, nel Banco e nell’Olimpo, e con un colpo di teatro chiede alla Corte che i suoi aguzzini gli siano indicati a uno a uno per nome, per stabilire una sorta di parità, dato che lui fu sempre bendato al loro cospetto.
Ammette, Bechis, che nemmeno il processo e le condanne, dunque la chiusura circolare di una vicenda iniziata oltre tre decenni prima, sono serviti a riconciliarsi con se stesso. Ci voleva questo libro, confida. Sono suo buon amico da tanto tempo. Eppure non conoscevo una miriade di dettagli, i più intimi. Nel volume c’è una frase emblematica pronunciata da una sopravvissuta: «Di certe cose parlo soltanto con le mie piante». Ecco spiegato il titolo. È quella la solitudine del sovversivo.