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«Tokyo 2020». Continueranno ad essere chiamati così i Giochi della XXXII Olimpiade nonostante siano stati rimandati al 2021, dopo che l’Oms (11/03/2020) ha dichiarato la pandemia da Covid-19. Lo stesso giorno in cui nove anni prima un terremoto, uno tsunami, e una conseguente catastrofe nucleare ha devastato Fukushima (11/03/2011).


E proprio da Fukushima il 23 luglio partirà la staffetta della torcia olimpica dieci anni dopo il disastro.
Saranno «I Giochi della ricostruzione» in omaggio a una regione che vuole guardare al futuro. Il logo è un anello color indaco dal motivo a scacchiera. Simbolo di armonia tra i Paesi «uniti nella diversità». La mascotte si chiama Miraitowa. «Imparare dal passato per sviluppare nuove idee». Questo il significato del nome. Saranno dunque delle Olimpiadi che esalteranno il senso di quei cinque anelli intrecciati. Azzurro-Europa, giallo-Asia, verde-Oceania, rosso-America, nero-Africa. Nero come il buio che segna questo tempo malato d’iniquità, di un passato che non suscita un nuovo futuro, di una «diversità di popoli» che è diseguaglianza di destini.

Ad oggi, il 75% dei vaccini è stato somministrato in soli dieci Paesi del mondo, mentre oltre 130 non hanno ancora ricevuto alcuna fornitura, denuncia Msf. «Un contratto sociale globale come imperativo morale» esige l’appello congiunto per un vaccino accessibile a tutti di Nazioni Unite, Movimento Internazionale Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Così, acquista un significato sinistro l’idea che queste Olimpiadi «della ricostruzione» non avranno sugli spalti un pubblico internazionale a condividerla, a parte i giapponesi (misure anti-Covid-19). Così come sinistro suona quel «Tokyo 2020» che inchioda al passato, quando ci vorrebbe un minimo di lungimiranza per comprendere un’affermazione semplice: «Nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro» (direttore generale di Amref Health Africa).