Perché nel nostro Paese è così difficile per le donne fare politica? Lo abbiamo chiesto a chi ci ha provato. Da Nord a Sud. Come la ex prima cittadina di Rosarno: «Ogni giorno entravo in Comune e dicevo adesso mi metto il casco per fare la guerra»

Sono passati settantacinque anni da quando le italiane hanno votato per la prima volta e dal decreto che il 10 marzo 1946 ha sancito la loro eleggibilità; quarantacinque da quando Tina Anselmi è divenuta la prima ministra della Repubblica. Nel frattempo un’italiana è andata nello spazio e sembra che nel nostro Paese sia un’impresa più semplice che governare una città. Nel 2021, infatti, soltanto il 15 per cento dei Comuni italiani è guidato da una donna; sono decisamente di più le assessore, che raggiungono il 44 per cento, ma solo per merito della legge 56/2014, la così detta Delrio, che prevede che nelle giunte dei Comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento; se poi andiamo a rilevare le consigliere e le presidenti dei Consigli comunali, le percentuali scendono nuovamente al 34 e al 26 per cento (secondo i dati del ministero dell’Interno, dati aggiornati al 27/01/2021).


Ma perché in Italia è così difficile per le donne fare politica, tentare di erodere quel privilegio maschile ormai istituzionalizzato, che nei secoli ha fatto incetta di posti e non è disponibile a mollarli? In un viaggio che ha attraversato tutte le regioni lo abbiamo chiesto a chi ci ha provato: donne al primo incarico o politiche di lungo corso, espressione dei vari partiti o della società civile, con o senza figli. Tutte si sono candidate per dare un contributo mettendo le proprie competenze a servizio del territorio, un territorio spesso difficile e “in salita” non solo geograficamente, dove hanno deciso di restare nonostante tutto: un modo — dicono — per andare oltre la lamentela e la critica sterile, per esercitare responsabilità e agire il cambiamento in prima persona.

 

«In fondo per una donna entrare in politica non significa fare qualcosa di lontano dalla propria quotidianità, ma lavorare per il territorio nell’interesse collettivo», dice Elena Meini, consigliera comunale a Cascina (Pisa). Emilia Delli Colli, prima cittadina di Rocca d’Evandro (Caserta), da vent’anni lavora nella farmacia del paese e da dieci fa politica, ma per essere eletta ha dovuto fare il triplo degli sforzi, perché «nella mentalità il sindaco è una figura autorevole e un sindaco donna non si può sentire»; eppure — racconta Francesca Arcadu, consigliera comunale a Sassari dal 2014 al 2019 — dove le donne governano dimostrano che «sanno fare, hanno visione, sono capaci di andare dal problema alla soluzione; sono in quei posti per fare delle cose, non per occupare spazi di potere».

 

La pensa allo stesso modo Luisa Guidone, presidente del Consiglio comunale di Bologna: «Quando le donne s’impegnano, sono imbattibili: le sindache che lavorano sui territori sono difficili da demolire, resistono, hanno più pazienza, savoir faire». Entrambe credono che il cambiamento vada accelerato e sostengono con forza le quote e la doppia preferenza di genere, perché secondo Guidone «quello maschile è un sistema che si autorigenera e si autoalimenta e le leggi sono l’unico modo per scardinarlo».

Luisa Guidone

Nessuna pensa che si debba votare una donna perché è donna, ma perché lavorano bene, sono più sintetiche, più mediatrici, non si fanno governare dal consenso, hanno obiettivi ambiziosi a lungo termine che forse non vedranno realizzati ma per i quali s’impegnano con la stessa determinazione, sono meno portate alla ribalta. A volte ci finiscono loro malgrado, ora più di un tempo, grazie alla macchina del fango alimentata dai social. Confessa Arcadu: «Tu fai tanto, poi basta un post a caso per distruggere tutto. Se non hai le spalle forti e sei un po’ sensibile, questa roba ti asfalta». Motivo per cui anche una millennial come Alice Chanoux, sindaca di Champorcher (Aosta), 393 abitanti divisi tra 27 frazioni, è molto diffidente nei confronti della Rete: «Sui social è sempre in agguato il rischio di fraintendimenti con maggiori disagi rispetto ai benefici». E se i fraintendimenti possono intossicare la comunicazione, gli attacchi personali possono fare davvero molto male e non solo a chi è in prima linea.


È il caso ad esempio di Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno dal 2010 al 2015, che definisce la sua esperienza un Vietnam, devastante soprattutto sul piano umano: «Ogni giorno entravo in Comune e mi dicevo: mi metto il casco per fare la guerra». Contro la cosca dei Pesce, che l’hanno costretta alla scorta, un’esperienza dura in particolare per i suoi figli: «Abbiamo sperimentato un isolamento totale: ho perso tante amicizie, che forse è più corretto definire conoscenze, ma non sono pentita, perché quando sei in ballo devi ballare», ma anche nei confronti dei suoi consiglieri e dei compagni di partito, responsabili della conclusione anticipata del mandato. Con il rammarico che si sia parlato di lei solo in relazione alla tutela ottenuta, offuscando i non pochi risultati conseguiti: opere per 30 milioni di euro e non solo.


Anche Sumaya Abdel Qader, consigliera a Milano, durante la campagna elettorale è stata travolta da un’ondata di cattiveria, che l’ha fatta stare molto male: «Il momento in cui ho avuto veramente paura è stato quando hanno cominciato a toccare i miei figli, lì non ci ho più visto: li ho chiusi in casa, non li lasciavo uscire; poi ho capito che non potevo farli vivere così e dopo aver creato una rete di protezione ho allentato la presa. Inoltre non volevo che odiassero il mondo perché il mondo odia la mamma».

Sumaya Abdel Qader


Un prezzo molto alto l’ha pagato anche Cettina Di Pietro, sindaca di Augusta dal 2015 al 2020 dopo trenta mesi di commissariamento a causa di presunte infiltrazioni mafiose: «Ho ricevuto una quantità incredibile di attacchi personali, che non credo avrei ricevuto in egual misura se fossi stata un uomo. Dimenticando che sono anche una mamma, hanno dato sfogo non solo a critiche, ma a vere e proprie dicerie: ero naturalmente l’amante di tutti, ero un’ubriacona, chi sa poi cosa significava il fatto che avessi nominato una giunta prevalentemente femminile…». Insinuazioni che non entrano nel campo degli uomini, a cui non viene chiesto di dimostrare la loro irreprensibilità, al pari dei loro meriti, regolarmente dati per scontati, quasi facessero parte del patrimonio genetico. Se poi aggiungiamo il fattore tempo, il vantaggio irrecuperabile è servito.


Per Simona Lembi, presidente della Commissione Pari Opportunità dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), infatti, «fino a quando le donne non avranno un tempo sufficiente per sé e per scegliere, se lo desiderano, di rappresentare una parte della cittadinanza, parliamo di niente. E il tempo delle donne è un tempo ancora non libero. Quando va bene hanno un lavoro pagato (ce l’ha meno di una su due), ma la cura è ancora tutta sulle loro spalle». Aggiunge Angela Fiore, assessora a Matera dal 2018 al 2020: «Per quanto si possa cercare di delegare, il tempo che ci rimane a disposizione è troppo poco, perché la gestione e il controllo spettano sempre a noi».

MARTINI_Lembi

In un contesto caratterizzato da riunioni infinite a orari improbabili, con tempi scomodissimi tutti decisi dagli uomini, nel quale capita però che il numero legale in giunta lo garantiscano le donne, gli esempi possono avere una grande forza. Stefania Proietti, sindaca di Assisi, ingegnera impegnata in una svolta green dalla sua postazione in municipio, in alcune occasioni pubbliche sceglie di portare i suoi figli: «È un modo per incoraggiare le altre donne, per dire loro che impegno politico e maternità possono convivere». Ed è un messaggio anche per le più giovani, che spesso hanno poca fiducia in se stesse: «È importante far capire loro che valgono mentre sui ragazzi bisogna lavorare per superare la rigida divisione dei ruoli», dice Elisabetta Anversa, vice sindaca di Camogli. Un lavoro che per molte comincia in famiglia con i propri figli e i propri mariti e compagni: Antonella Matticoli, assessora ad Isernia, sostiene che «è fondamentale trasmettere che mamma e papà devono avere gli stessi diritti. La cosa più difficile è stata rieducare mio marito, abituato al fatto che io ero a casa, ma mi ha sostenuto molto».


Esigenze di conciliazione in risposta alle quali servono, secondo la maggior parte delle nostre amministratrici, cultura e servizi. Ma c’è anche chi pensa, come Paola Pisano, assessora a Torino e poi ministra nel Conte 2, — una che non si spaventa davanti alla complessità e che è riuscita a organizzare uno spettacolo di droni in piazza San Carlo, che non si ferma di fronte ai «non si è mai fatto così» o alla mancanza di risorse, perché «i soldi ti ammazzano la fantasia» — che «una soluzione non c’è: anche ci fossero gli asili per tutti, i bambini si ammalano. Ma questo non significa che una volta cresciuti non si possa far carriera». E poi c’è chi, come Francesca Toffali, assessora a Verona, è convinta che «la prima conciliazione te la devi trovare in casa: devi prima chiederlo a chi dorme con te e non pretenderlo da altri. Se quando torni la sera non hai nessuno che ha preparato la tavola o fatto la spesa, come fai a trovare il tempo per impegnarti in politica?».


Il tempo, tuttavia, non è l’unico problema: «Noi donne scontiamo un complesso d’inferiorità, che ci fa sentire perennemente inadeguate. Abbiamo due strade per superarlo: adottare uno stile autoritario per sopperire alla mancanza di autorevolezza oppure impegnarci al massimo per far emergere al meglio le nostre competenze», dice Laura Marzi, sindaca di Muggia (Trieste).


Quasi sempre scelgono la seconda strada e non si sottraggono a sfide apparentemente impossibili: semplificare una realtà ipercomplessa come Roma, progettare di sfamare il territorio con la canapa anziché con gli elettrodomestici, riattivare una centrale idroelettrica, decretare l’uscita di Bari dalla situazione di povertà estrema attraverso la promozione di reti a sostegno delle persone fragili. Queste le scommesse accettate rispettivamente da Flavia Marzano, assessora della giunta capitolina dal 2016 al 2019, a servizio della quale ha messo tutto il suo bagaglio di analista dell’impatto sociale e organizzativo dell’innovazione; dall’assessora di Fabriano Barbara Pagnoncelli, che con una disoccupazione al 30 per cento ha smesso di guardare al glorioso passato; dalla sindaca di Villetta Barrea (L’Aquila) Giuseppina Colantoni, che non si è arresa alla burocrazia; dall’assessora Francesca Bottalico, che ha ridisegnato il sistema di welfare barese lavorando sull’analisi dei dati e dei fenomeni in cambiamento, con un’attenzione particolare al bisogno non esplicitato: «È un lavoro partito dal basso, senza soluzioni predefinite e proponendo sempre un patto educativo con gli attori coinvolti. Welfare per me ha a che fare con benessere e non può ridursi a una borsa della spesa o a un sussidio mensile». Un investimento di speranza nel futuro, che non necessariamente porta voti.


E benessere, inteso come sentirsi a casa, riconoscersi in una comunità, è una parola chiave anche per Rosmarie Burgmann, sindaca di San Candido (Bolzano) dal 2015 al 2020, che durante il suo mandato ha organizzato periodicamente delle assemblee aperte alla cittadinanza, convinta che «ci dev’essere spazio in una democrazia per esprimere opinioni diverse, non solo al bar o dietro una porta chiusa», come spesso fanno gli uomini nelle segreterie di partito o addirittura negli spogliatoi, dopo aver giocato a calcio. Uno stile fatto di ascolto ma anche molto concreto: potremmo azzardarci a definirlo femminile, ma non vogliamo ingabbiare le donne, neanche in veste di amministratrici, in un unico cliché. Perché le donne sono tante e diverse, ma in politica ancora troppo poche per fare la differenza. E la sotto rappresentazione di più di metà della popolazione non è un problema delle donne, ma incide sulla crescita dell’intero Paese, alimentando le disuguaglianze sociali.


«La presenza femminile in politica, nei posti cosiddetti “di potere”, non serve soltanto alle donne, serve a migliorare la qualità della società. Per tutti». Lo diceva Tina Anselmi e non lo abbiamo ancora capito.