Materiali scadenti, ruggine, buchi nelle tubature. Tutto quello scritto da L’Espresso nel 2016 sulla corrosione della mega opera viene confermato. E dopo una spesa di sei miliardi, 35 anni di lavori, e un’attività di appena due, esplode l’emergenza

Mose a rischio corrosione. La più grande opera pubblica italiana che dovrebbe difendere Venezia, costata fin qui sei miliardi di euro e già inaugurata in pompa magna nel luglio scorso, soffre di un male oscuro. Nelle sue viscere, 15 metri sotto il livello del mare, avanza la corrosione. Ossidazione, ruggine e infiltrazioni d’acqua salata circondano e minacciano le dighe mobili e il loro punto più delicato, le cerniere. Ce ne sono 156, due per ogni paratoia nelle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia che mettono in comunicazione la laguna con il mare. Sono ancorate ai cassoni in calcestruzzo sul fondo della laguna e comandano il movimento delle dighe che si alzano quando sono riempite d’aria e si abbassano con dentro l’acqua. Un sistema progettato negli anni Ottanta, lavori avviati nel 2003 e non ancora conclusi. Dopo lo scandalo esploso nel 2014, gli arresti per corruzione, i ritardi e gli sprechi del Consorzio Venezia Nuova, il concessionario monopolista istituito per legge nel 1984, si sono scoperte molte falle nel sistema. Opere malfatte, buchi nelle tubature, conche di navigazione sbagliate e danneggiate dalla prima mareggiata.
E poi la corrosione. Si sapeva da tempo che qualcosa non andava. Lo avevamo denunciato con Gianfrancesco Turano sull’Espresso, cinque anni fa. La Mantovani, azionista del Consorzio che aveva costruito le cerniere sotto accusa, aveva sporto denuncia. Il settimanale era stato assolto, per aver «correttamente esercitato il diritto di cronaca».


E il problema non è stato risolto. Nemmeno dopo la nomina di un commissario straordinario, l’ex dirigente del Demanio Elisabetta Spitz, nel novembre del 2019.

Nel luglio scorso la grande cerimonia di inaugurazione, alla presenza del premier Giuseppe Conte, ministri e burocrati di Stato. Le paratoie si sono alzate tra gli applausi. Poi non sono tornate giù, per via della sabbia che si deposita sul fondo e della mancata manutenzione. In autunno il Mose è stato alzato venti volte in presenza di acqua alta. Festa e tripudio. Ma il male sott’acqua continua a crescere. E l’emergenza corrosione è esplosa.
Con un gesto non frequente nel panorama del nostro Paese, i due ingegneri metallurgici esperti in corrosione consulenti del ministero delle Infrastrutture, si sono dimessi dal loro incarico. Susanna Ramundo, romana, ingegnere corrosionista, consulente dell’Unione europea, e Gian Mario Paolucci, professore padovano tra i massimi esperti italiani in materia hanno scritto una durissima lettera di denuncia. «La corrosione avanza e non si fa nulla. Ce ne andiamo».


«Mi sono dimessa perché ho perso», dice adesso Ramundo, che ha accettato di parlare con l’Espresso. «Non sono riuscita a tradurre banali concetti tecnici in azioni per chi poteva e doveva decidere. Nel 2016 abbiamo evidenziato le criticità dell’opera e proposto le soluzioni correttive. È tutto depositato, chiedete l’accesso agli atti del Cta, il Comitato tecnico del Provveditorato alle Opere pubbliche che decide il finanziamento dei progetti. Leggete bene. Ci sono parole e silenzi. I silenzi vanno letti più delle parole». Non si è fatto nulla, accusa l’ingegnere, per fermare la corrosione e porvi rimedio.

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«Gli errori progettuali sono tanti, ad esempio la selezione dei materiali del sistema di tensionamento, quello che sorregge le paratoie e vive sott’acqua, fa tremare i polsi», scandisce Ramundo. Non acciaio Superduplex, resistente e più costoso, ma l’acciaio al carbonio, che si ossida all’aria. Il sistema cerniera del Mose è composto da un elemento fisso (femmina) ancorato al cassone sul fondo della laguna, e un elemento mobile (maschio, lo stelo tensionatore) sulla paratoia. «Le femmine sono in acciaio al carbonio poi verniciato ma le vernici non sono coperture sigillanti. Le auto hanno cinque anni di garanzia contro la corrosione, perché dopo quel periodo la protezione offerta dagli strati di verniciatura si esaurisce ed è possibile la permeazione di agenti corrosivi. Nel caso del Mose questi elementi sono a immersione completa in mare, quindi altri avrebbero dovuto essere i materiali di queste componenti ciriticissime, maggior cura si sarebbe dovuta porre al sistema della loro protezione catodica», spiega l’ingegnere.


Non basta. Secondo l’esperta del ministero anche l’altro elemento (lo stelo tensionatore) è stato realizzato con acciaio rivestito di nichel. «Che invece di proteggere la lega sottostante contribuisce alla sua corrosione elettrochimica, detta galvanica. In ambiente umido questo processo provoca la dissoluzione del materiale meno nobile che risulta essere proprio lo stelo».


Dunque? «Tutto il sistema andrebbe rivisto integralmente. È previsto nel bando di gara europeo 54 da 34 milioni di euro, fermo da un anno e mezzo perché non si permette alle aziende di effettuare i sopralluoghi». Fatto sta che la situazione oggi nelle gallerie sott’acqua è drammatica. «Hanno scelto un materiale non idoneo, ad essere buoni. E non si sono condizionati gli ambienti delle gallerie per anni. Con i risultati che vediamo oggi: la soluzione salina ha agito indisturbata su tutti i componenti e sulle strutture delle gallerie. È lo stesso meccanismo che mette a rischio anche i mosaici della Basilica di San Marco».
Errori progettuali, incuria, manutenzione dimenticata. «Pensano alla manutenzione come il dover ripristinare componenti dopo che si sono usurate, invece si deve studiare il rischio di rottura. Per quello bisogna rifare tutto il sistema di aggancio. Per garantirne la vita e l’affidabilità del sistema», continua l’ingegnere. Dunque c’è anche un rischio di possibile cedimento. «Sono molto preoccupata. Abbiamo stimato una vita residua per gli steli della bocca di Treporti di soli 30 anni, contro i 100 garantiti dal progetto. Avevamo raccomandato ispezioni subacquee almeno un paio di volte l’anno». Invece? «Niente. E i tempi della corrosione non sono quelli della burocrazia».
Uno dei tanti buchi neri del grande progetto, accusa Ramundo, è che nelle varie commissioni che hanno approvato l’opera non ci sono esperti di corrosione. Un grave errore è stato quello di sottovalutare questo aspetto, che adesso mette a rischio la tenuta del sistema.
E non riguarda solo il Mose. «La corrosione e il degrado hanno portato al crollo del ponte Morandi e di molte altre infrastrutture in Italia. È un problema da affrontare seriamente e alla svelta. Occorre assumere giovani ingegneri specializzati in corrosione. Il Mose non si salva con gli avvocati con gli esperti e i consulenti che poi se ne vanno, ma con una struttura di controllo efficace e specializzata», ricorda Ramundo.

Giancarlo Galan, presidente del Veneto dal 1995 al 2010


Possibile che nessuno in quarant’anni di studi e lavori abbia mai pensato a questo aspetto decisivo per il futuro dell’opera? «Ho documenti firmati da ingegneri del Politecnico di Milano che ci hanno contestato, negando che quel fenomeno potesse accadere. Noi siamo andati avanti lo stesso. Ma adesso tutto è tornato indietro, come in un film riavvolto. Per questo ci siamo dimessi».
Un altro punto è rappresentato dal tipo di cerniera. Saldata e non fusa, affidata senza gara dal Consorzio di Mazzacurati all’impresa Fip, gruppo Mantovani, allora prima azionista del Consorzio a inizio anni Duemila. Scuote la testa l’ingegner Ramundo: «Facile immaginare che in ambiente marino sarebbe auspicabile evitare saldature che rappresentano punti di debolezza del materiale».
Adesso è tardi. Per rimediare bisognerà sostituire tutte le parti danneggiate. E il tempo scarseggia. Secondo il cronoprogramma ribadito dal commissario del Mose e dal ministero i lavori dovrebbero concludersi il 31 dicembre. Ramundo sorride: «Davvero? E di quale anno? Con che affidabilità? Quale assicurazione lo prenderà in carico? Ho solo domande su questo punto, non vedo certezze. E non so più che dire. Più che dimettermi, che dovevo fare?».