Gli Usa hanno investito 8mila miliardi, il 40 per cento del Pil, e la ripresa è già ripartita. Il Vecchio Continente spenderà meno del 5 per cento e, tra lungaggini e burocrazia, ancora non si vede la fine del tunnel

Il piano Marshall questa volta gli americani se lo fanno in casa. E fanno le cose molto più in grande: il progetto di aiuti all’Europa del dopoguerra valeva 12 miliardi di dollari (equivalenti a 130 miliardi attuali) ovvero il 4 per cento del Pil Usa nel 1948. Ne beneficiarono 15 Paesi fra cui l’Italia (e compresa anche la Turchia che di lì a poco aderì alla Nato): solo Polonia e Ungheria dovettero rifiutarli su ordine dell’Urss all’alba della guerra fredda.

 

L’odierno American Rescue Plan - come viene ufficialmente chiamato il composito pacchetto di aiuti agli individui e alle imprese messi in campo da quando è scoppiata la crisi pandemica - vale il 40% del Pil.

Considerando sia gli aiuti varati da Trump nel 2020 che quelli dei primi cento giorni (scadono il 30 aprile) di Biden, si arriva alla cifra stellare di 8mila miliardi di dollari (il Pil Usa supera oggi i 20mila miliardi). Tanto che l’economia si è già ampiamente ripresa: intanto ha limitato i danni per il 2020 al -3,5% del Pil (contro il -6,6% dell’Eurozona e il -8,9% dell’Italia), e ora l’Ocse ha raddoppiato le previsioni della crescita per il 2021 dal 3,2 stimato pochi mesi fa al 6,5% come indica l’ultimo rapporto presentato l’8 aprile e intitolato non a caso “Shaping a vibrant recovery”, dare forma a una ripresa gagliarda. «In un’economia così grande come gli Stati Uniti in cui i consumi rappresentano quasi il 60% del Pil», spiega Brunello Rosa, economista della London School, «se viene conferito un massiccio volume di aiuti, basta che un terzo di essi sia rimesso in circolo per attivare un volano formidabile. Ogni 3mila miliardi, per esempio, se mille miliardi vanno ai consumi significa subito 4 punti di Pil. Aggiungiamo un 2-3% di “rimbalzo” della produzione industriale, e le previsioni dell’Ocse si confermano più che plausibili».


L’importante è che gli aiuti siano rapidi, mirati e tempestivi. Rispetto al piano Marshall che durò 5 anni (1948-1953) gli interventi americani sono stati stavolta pressoché immediati. Il Cares Act (Coronavirus Aid Relief and Economic Security) del marzo 2020 bruciò in assegni alle famiglie, sovvenzioni alle imprese e misure sanitarie (compresa la ricerca sui vaccini), 2200 miliardi di dollari in pochi mesi. Tanto che in luglio l’amministrazione Trump dovette rifinanziarlo con 800 miliardi, e in dicembre (in piena transizione post-elettorale) con altri 900.

Con l’insediamento di Biden il torrente di denaro è diventato un fiume in piena. Subito dopo l’“inauguration” del 20 gennaio, il neopresidente ha proposto un’ulteriore tranche di interventi da 1.900 miliardi, e il 15 marzo l’ha firmata come legge dopo l’approvazione-lampo del Congresso. Quasi 50 milioni di americani hanno già ricevuto sul conto corrente gli assegni.

È la terza tornata di aiuti diretti dopo le due del 2020 (con le leggi di Trump) e anzi il governo federale è più generoso: 1400 dollari a persona (erano 1200 e 600 nelle precedenti occasioni) per chi guadagna fino a 75mila dollari l’anno, tre quarti degli americani. Stessa cifra per la moglie (o il marito) se il reddito complessivo, dichiarato congiuntamente al fisco, non supera i 150mila dollari. In più, rispetto alle altre volte ci sono 500 dollari per ogni figlio a carico indipendentemente dall’età (finora doveva avere meno di 17 anni, ora sono ammessi i “bamboccioni”).

Altrettanto immediati gli aiuti alle industrie, alle amministrazioni locali, alla sanità, contenuti nel piano. Non è finita: all’inizio di aprile Biden ha proposto un piano da 2300 miliardi per investimenti infrastrutturali: strade, dighe, autostrade, aeroporti, ponti. E così arriviamo a 8mila miliardi dallo scoppio della pandemia. Non è finita: mentre inizia l’iter congressuale di questo progetto - chiamato “American Jobs Plan” - il presidente ha annunciato che presenterà entro l’estate l’ennesimo maxi-piano perfino più robusto con ulteriori interventi in scuola, sanità (con la speranza di rivitalizzare l’Obamacare affossato da Trump), assistenza a minori e anziani. L’obiettivo è arrivare nel complesso al 50% del Pil.


Il confronto con l’Europa è avvilente. Il Recovery Fund da 750 miliardi equivale al 5% del Pil dell’Unione (14mila miliardi dopo la Brexit), anche se si integra con i contributi nazionali (140 miliardi in Italia dall’inizio della crisi compreso l’ultimo “ristoro” da 40 miliardi). Ma è sui tempi che si incentrano le preoccupazioni. Il trattato europeo che istituisce il Recovery Plan - approvato dal Consiglio europeo dopo quattro giorni di trattative nel luglio 2020 - deve ancora essere ratificato dai parlamenti di nove Paesi (l’Italia l’ha fatto in coda al governo Conte). Dopodiché le assemblee devono pronunciarsi sui piani nazionali di attuazione (a Montecitorio la discussione comincia lunedì 26 aprile), infine i piani stessi devono essere approvati da Bruxelles. In effetti quest’ultima approvazione è in realtà abbastanza formale perché la commissione ha istituito una task force con specialisti per ogni Paese, che hanno lavorato insieme ai rispettivi governi per preparare i piani nazionali. Comunque un imprimatur finale occorre. Ma di ostacoli ne nascono continuamente.

La settimana scorsa è stata schivata non senza travaglio l’insidia del ricorso presentato da Alternative fur Deutschland alla Corte costituzionale tedesca, basato sulla presunta impossibilità di mettere in comune il debito, e questo ha rallentato pesantemente la preparazione dell’emissione degli eurobond. Come se non bastasse, la Polonia, oltre ai soliti “frugali” (Austria, Finlandia, Olanda) si è messa di traverso sulle tasse comuni necessarie a costituire un “nucleo duro” di risorse finanziarie (servono 40-50 miliardi) per emettere le garanzie agli eurobond, rispolverando l’antico nodo della cessione di sovranità. Ammesso che cadano le pregiudiziali, bisogna decidere come procedere: «Il metodo più semplice», spiega Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali, «sarebbe un prelievo sul già esistente Emission trading system (i “permessi per inquinare” quotati su un apposito listino europeo, ndr) ma è prevedibile che la commissione proponga anche il “carbon border adjustment mechanism”, nome tecnico della carbon tax sulle importazioni da Paesi che adottano standard d’inquinamento meno rigorosi dei nostri, o la celeberrima digital tax o web tax come la si voglia chiamare».


Non a caso la ripresa europea deve ancora cominciare. In America invece ogni giorno arrivano dati confortanti, «anche se la pandemia non è sconfitta e c’è anche qui il problema delle varianti», puntualizza Robert Shiller, Nobel 2013 per l’economia. Intanto il Department of Commerce annuncia che le vendite al dettaglio sono aumentate in marzo del 9,8% sul mese precedente e del 27,7% rispetto a marzo 2020 quando il mondo si fermò.

Gli economisti “sondati” dal Wall Street Journal del 19 aprile prevedono che la produzione industriale sarà quest’anno addirittura superiore per il 4% al 2019. Solo sul rientro della disoccupazione c’è prudenza: durante il 2021 saranno creati 7,1 milioni di posti ma il totale degli occupati resterà inferiore al 2019 quando la disoccupazione toccò il minimo storico del 3,5%. Oggi è al 6% (era del 15% nel marzo 2020) con 916mila nuovi posti in marzo. «L’anno prossimo», assicura Shiller, «il recupero sarà completo anche su questo fronte. Con una speranza: che Biden, fedele al suo motto “build back better” compia qualche intervento, rimodulando il prelievo fiscale per ridurre le diseguaglianze, diventate dopo quattro anni di Trump e la devastazione pandemica un dramma non più tollerabile». Solo a New York, città martire del Covid con un milione di contagiati e 42mila morti su 8 milioni di abitanti (nonché il posto dove le diseguaglianze sono più strazianti), la ripresa è lenta perché prevalgono settori - ristorazione, servizi, turismo - che faticano a riavviarsi, e così la disoccupazione è ancora all’8,5%.


Il nodo fiscale è centrale sia in Europa che in America, dove l’amministrazione per finanziarsi (il rapporto deficit/Pil è passato dal 5% del 2019 al 15 attuale e il debito è al salito dal 101 al 140%) non può affidarsi solo al “privilegio esorbitante” del dollaro, come lo chiamava De Gaulle. Janet Yellen, segretario al Tesoro, ha lanciato l’offensiva: tasse sulle corporation dal 21 al 28%, supertassa al 39,6% (dall’attuale 37) su chi guadagna più di 400mila dollari l’anno, minimum tax globale del 10-15%. L’ultimo è il capitolo più arduo: «Si punta sul fatto che, pur pagando comunque un po’ di più, le multinazionali americane siano indotte a reinvestire in patria», spiega Michael Spence, Nobel 2001, che dopo Stanford oggi insegna finanza internazionale alla Bocconi. «Serve l’appoggio europeo, e la proposta può servire ad aprire una riflessione in sede Ue che potrebbe portare a qualche ragionevole accordo».

Più scettico Carlo Cottarelli, che da capo del dipartimento finanza del Fmi quindici anni fa propose senza fortuna una World Tax Organization «per armonizzare le legislazioni e fermare l’elusione fiscale delle multinazionali». La proposta americana comunque «è condivisibile e bene ha fatto Draghi ad appoggiarla in vista del G20 sul fisco che si terrà in luglio a Venezia a presidenza italiana». Tutto starà a quel punto nel valutare la forza della ripresa fra i due continenti.