Attualità
aprile, 2021

Scandali, correnti di potere, processi infiniti: la magistratura è in crisi. «I cittadini non ci capiscono più»

Ai minimi di credibilità e autostima, con un Csm lacerato dal caso Palamara, tra riforme gattopardesche e cronici problemi di efficienza e procedure, ora i giudici temono l’affondo finale della politica: «In pericolo la nostra indipendenza». L’Espresso chiede a otto protagonisti della storia giudiziaria, da Caselli a Spataro, dalle procuratrici antimafia a Calvi e Zagrebelsky, perché il sistema legale è al collasso e cosa bisogna cambiare

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Cesare Terranova, Guido Galli, Emilio Alessandrini e tanti, troppi altri. Sono magistrati che hanno sacrificato la vita per la giustizia, per liberare l’Italia dalla mafia e dal terrorismo. Sarebbe bastato ricordare i loro nomi, fino a ieri, per non cadere nella trappola politica e mediatica di scaricare su tutti i giudici le colpe di alcuni, strumentalizzando un caso giudiziario per screditare l’intera magistratura. In passato la giustizia italiana ha superato scandali molto peggiori del caso odierno di Luca Palamara, l’ex capo-corrente di Unicost intercettato mentre trattava le nomine dei procuratori con politici indagati, e ora accusato (da altri magistrati) di aver incassato tangenti e regali per favorire un amico imprenditore. Ci sono stati giudici illustrissimi incriminati per mafia, concussione, abusi sessuali, corruzioni miliardarie. Ma il blocco dei colleghi resisteva, reagiva con indagini, arresti e condanne delle toghe sporche. Anche negli anni più neri della nostra storia, la giustizia come istituzione aveva tenuto. Ma oggi la magistratura attraversa una crisi senza precedenti. Perché è una crisi interna. Grave. Di democrazia e rappresentanza. Di credibilità e reputazione. Amplificata dal cronico sfascio del sistema legale e processuale, che esaspera i cittadini onesti.

Nei palazzi di giustizia chiusi dal Covid-19, da Milano a Palermo, molti magistrati confessano di sentirsi «disillusi», «demotivati», «sconfortati». Parlano di «una crisi generale», scollegata da vicende specifiche. Non credono più nelle «auto-riforme» annunciate dal Csm o dai vertici della loro associazione. E si aspettano invece contro-riforme punitive, decise da politici che rifiutano il controllo giudiziario. La posta in gioco è l’indipendenza della magistratura, la sua capacità di imporre la legalità a tutti, anche agli altri poteri dello Stato: una conquista del 25 aprile. Per capire le ragioni della crisi, l’Espresso si è rivolto a magistrati, avvocati e giuristi che hanno vissuto da protagonisti la storia giudiziaria. Molti, che lavorano ancora nei tribunali, preferiscono non esporsi in dichiarazioni. Ma spesso i loro giudizi, e le parole stesse, coincidono.

Gian Carlo Caselli, come procuratore a Torino e Palermo, ha guidato indagini storiche contro il terrorismo e la mafia, proprio negli anni delle stragi di magistrati. Oggi è preoccupato come mai: «La parola epocale è abusata, ma ci sta tutta se riferita all’attuale crisi della magistratura. Con lodevoli eccezioni, è un corpo culturalmente indebolito, tramortito da crisi di efficienza, credibilità, autostima. Lo scenario di fondo è cupo: un processo farraginoso e incomprensibile, con tempi e costi che generano sfiducia nei cittadini; martellanti campagne mediatiche; personalismi e polemiche tra magistrati; rischio di derive illiberali, con un crescente rifiuto del processo, della giurisdizione stessa.Tutti questi fattori non possono non causare disagio nei giudici responsabili, quelli che patiscono il fatto di non poter rendere un servizio ai cittadini. Nel contempo, cresce la tendenza ad interpretare il ruolo in maniera burocratica, piuttosto che con l’etica della responsabilità. Significa accontentarsi del minimo sindacale. Dopo trent’anni di calunnie, insulti, aggressioni ai magistrati, è comprensibile che qualche collega si chieda: ma chi me lo fa fare? Qualche parte politica ostile cercherà sicuramente di approfittare di questa crisi per attaccare la giustizia, non le sue inefficienze».

Giancarlo Caselli

E a lei chi l’ha fatto fare? Perché è diventato magistrato? Il pensionato Caselli si prende in giro: «Era il lontano 1967... Era il lontano 1967... I miei genitori hanno fatto i salti mortali per farmi studiare, volevo ripagarli di tanti sacrifici. Allora i figli di operai che entravano in magistratura si contavano sulle dita di una mano». E che motivazioni aveva, un giovane dell’Italia di allora? «In quegli anni nella società italiana affiorava l’esigenza della difesa dei diritti, l’affermazione dei principi costituzionali di uguaglianza. Anche la magistratura cominciava a rompere la sua tradizionale sintonia col potere... Furono decisive alcune letture: Calamandrei, Bobbio, Galante Garrone, Ramat, Danilo Dolci, don Milani... Dopo due anni di tirocinio, ho avuto la fortuna di lavorare con un maestro, Mario Carassi, che guidava i giudici istruttori. Fu lui a creare il primo pool, che poi ispirò Caponnetto a Palermo. Quando le Brigate rosse uccisero il procuratore Coco con Saponara e Dejana, gli uomini della scorta, Carassi affidò l'istruttoria a tre magistrati, dicendoci chiaramente: così, se i terroristi ammazzano uno di voi, gli altri due vanno avanti. Fu Carassi a insegnarmi l'etica della responsabilità. L'esempio conta molto».

La crisi allarma i grandi vecchi della magistratura, mentre tra i giovani genera sfiducia, apatia, impotenza. Armando Spataro è stato pm a Milano dal 1976, in una procura in trincea contro il terrorismo, e ha lasciato la toga nel 2018, dopo un’elezione al Csm e grandi indagini sulla mafia al Nord e i servizi segreti («ma anche i furti di biciclette», minimizza). Anche lui oggi è preoccupato: «Un senso di crisi covava da tempo, ma si è accentuato negli ultimi due anni, con il caso Palamara e soprattutto con l’impatto mediatico del suo libro, utilizzato per attaccare tutte le correnti, anzi tutta la magistratura. Bisogna reagire con durezza. E con la massima trasparenza. Mi piacerebbe vedere anche l’avvocatura al fianco dei magistrati».

Armando Spataro


Come si spiega questa crisi? Spataro esita a rispondere: «Sulle ragioni vorrei essere prudente, temo di indulgere in rimpianti dei tempi andati. Certamente vedo comportamenti che non apprezzo. Magistrati che si propongono come eroi solitari in lotta contro i poteri forti. E dall’altro canto un atteggiamento burocratico, di fuga dalle responsabilità, purtroppo diffuso anche tra i più giovani. Negli anni di piombo la nostra generazione usciva dai palazzi di giustizia per dire no al terrorismo. C’era un fortissimo impegno civile, che oggi mi sembra scemato. Non so dire perché, non faccio il sociologo. Penso che influisca anche un'informazione distorta sulla giustizia: nell'era di Internet vince chi dà per primo una notizia urlata, anche se è sbagliata, falsa, e non la si corregge più. Ma quando si arriva ad approvare il sorteggio per selezionare le commissioni di concorso, o a proporlo per l’elezione al Csm, significa che anche nella magistratura si rischia di rinunciare alla competenza, alla valutazione del merito, al senso della propria dignità».

Anche la fiducia dei cittadini è ai minimi storici. L’inefficienza della giustizia – tra processi civili lentissimi, migliaia di vittime dei reati beffate dalla prescrizione, strutture fatiscenti, deficit di personale e rivoluzioni informatiche che non decollano mai – dipende da leggi mal fatte dalla classe politica. Ma i magistrati più responsabili sanno che la gente incolperà loro dei disservizi. E fino a ieri cercavano di rimediare con più impegno, per senso del dovere. Oggi anche questo è in crisi.

BIONDANI_18_BERTOLE_VIALE

Laura Bertolè Viale è una donna di ferro che ha fatto il magistrato per 48 anni. Gli ideali di giustizia li ha assorbiti al liceo classico di Pescara, insieme a compagni di classe come Emilio Alessandrini e Vito Zincani. «Allora sapevamo che i magistrati rischiavano la vita. Poi, negli anni di Mani Pulite, ci siamo sentiti tutti osannati: altro errore. Oggi c’è rassegnazione, appiattimento, mediocrità. Non lo si dice, ma si accetta la disillusione dilagante: l’Italia non cambierà mai, la corruzione c’è sempre stata, con la mafia si può convivere, non uccide quasi più. Ho un buono stipendio e un posto sicuro, perché dovrei sacrificarmi? È in crisi il senso del dovere».

Oggi più di metà dei magistrati sono donne, che stanno conquistando anche posizioni di vertice: sapranno far funzionare meglio la giustizia? «Beh, in questo il cambiamento è stato enorme. Quando ho fatto il concorso, con me c'erano solo Livia Pomodoro e pochissime altre. Credo che le donne, mediamente, tendano ad essere più laboriose, tenaci, combattive, proprio perché devono superare i pregiudizi che ancora esistono. La parità di genere è una bella conquista, ma di per sé non risolve i problemi. La degenerazione delle correnti ha rovinato tutto. Una volta i migliori magistrati fondavano le correnti e animavano un dibattito pubblico di altissimo livello. Ora i migliori escono dall'associazione magistrati».

Le intercettazioni del caso Palamara hanno demolito l’istituzione. Il capo-corrente parlava con tutti. E ora la sua difesa è craxiana: il sistema delle nomine coinvolgeva tutte le correnti. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Le sue interviste indignano i tanti giudici che si dannano di lavoro e magari rischiano la vita. Ma pochi credono alle soluzioni proposte dai vertici, dal Csm o dall’Anm. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano e Reggio Calabria, se n’è andata dal direttivo di Unicost con un folto gruppo di colleghi. «Per una categoria composta in grandissima maggioranza da persone perbene, il caso Palamara è stato uno shock. A Milano abbiamo organizzato assemblee infuocate, con più di 400 giudici e pm, per dire basta, adesso si cambia. Presi la parola per chiedere scusa a nome di una corrente in cui avevo creduto. Servirebbe un’autocritica collettiva. Invece non cambia niente: si fanno riforme di facciata, gattopardesche, e noi all’interno ce ne accorgiamo. C’è molto disincanto. O disinganno. All’ultima elezione suppletiva per il Csm, circa il 40 per cento dei magistrati non è andato a votare».

E lei perché ha fatto il magistrato? Cerreti sorride: «L’avevo scritto nel tema della terza elementare: da grande voglio fare il giudice che arresta i mafiosi... Sono siciliana, sono cresciuta col mito di Falcone». Cosa c’è dietro la crisi di oggi? «Ci sono tanti fattori, è anche il frutto avvelenato di trent’anni di attacchi vergognosi alla magistratura. Ci fanno guidare una macchina giudiziaria disastrosa, che fa acqua da tutte le parti, facendo credere ai cittadini che la colpa sia dei magistrati. Ma ora è più difficile difendersi. E c’è un problema di motivazione. Quando ho fatto il concorso, la sede più ambita era Palermo. Oggi un trentenne dopo il tirocinio tende a cercare un posto tranquillo, che non imponga troppi sacrifici. Senza l’impegno dei giovani non usciremo dalla crisi».

Giuseppe Di Lello ricorda bene quel «periodo tragico, ma anche di grandi speranze», con «tantissimi giovani che volevano fare i magistrati a Palermo». Oggi è un sopravvissuto del pool antimafia di Falcone, Borsellino e Caponnetto. E avverte che nella giustizia italiana non è mai esistita un’età dell’oro: «Fino agli anni ’70 la magistratura era omogenea a un assetto sociale e politico conservatore. Al Csm si votava col maggioritario e Magistratura indipendente prendeva tutti i seggi. Dopo il ’68, con l’ingresso dei giovani, è nata Magistratura democratica e poi le altre correnti, che avevano fortissime motivazioni ideali. C’era il terrorismo, la mafia era impunita: si sentiva il dovere di difendere la democrazia, i cittadini. Negli ultimi anni le correnti sono degenerate in gruppi di potere per spartirsi le nomine. Questo scoraggia la partecipazione. E favorisce la commistione con la politica. Sono poteri dello Stato che devono restare separati. Dopo le stragi del 1992, tutti mi dicevano di andare via da Palermo. Ho fatto il consulente per la commissione antimafia e poi sono stato eletto in Parlamento, dove ho trovato Felice Casson e Gerardo D’Ambrosio. Nessuno di noi ha mai fatto comunelle di interessi con altri magistrati e tantomeno con politici. La giustizia deve essere indipendente. Un magistrato, come qualunque cittadino, ha diritto di candidarsi, ma deve cambiare mestiere».

 

Giuliano Turone è l’ex giudice istruttore che, per citare solo le sue indagini più famose, ha scoperto la loggia P2 e arrestato a Milano il super boss di Cosa Nostra Luciano Leggio (detto Liggio), . Ha vissuto in prima persona la svolta storica della giustizia italiana, che colloca in un periodo preciso: «Ho iniziato a fare il magistrato poco prima della bomba di Piazza Fontana. In Italia i principi della Costituzione si sono affermati lentamente, gradualmente, solo a partire da quegli anni. L’indipendenza della magistratura si è affermata concretamente con l’istruttoria sulla strage di Milano. Con la scoperta della strategia della tensione, delle complicità di apparati dello Stato, è nata la consapevolezza dei valori della democrazia. E della necessità di difenderli dal terrorismo».

 

All’epoca Guido Calvi, poi diventato senatore dei Democratici e membro del Csm, era l’avvocato di Valpreda, l’anarchico incarcerato ingiustamente con il marchio di stragista. Anche lui invita a non confondere le correnti con la loro degenerazione: «Va rivendicata la funzione positiva, dirompente, della nascita di Magistratura democratica. Negli anni ’50 e ’60 c’era il problema della continuità con il fascismo. Era molto peggio di oggi. Le correnti hanno avuto una grandissima importanza per la nostra democrazia: facevano cultura, le loro riviste entravano nelle università. Negli anni ’70 rappresentarono i momenti più alti di elaborazione del nostro pensiero giuridico». E oggi che ne resta? «I magistrati sono sfiduciati, stanno perdendo la consapevolezza di quanto è importante la loro funzione per i cittadini. La magistratura è l’istituzione fondamentale per la tutela della legalità, quindi va difesa soprattutto nei momenti di crisi come l’attuale. Per i casi individuali, c’è bisogno di severità, di maggior controllo ispettivo. Ma occorrono anche profonde riforme del processo e dell’ordinamento giudiziario. Ed è la politica, è il Parlamento che deve farle».

 

Per i magistrati non sarà facile uscire dalla crisi. Il professor Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, sottolinea che nella giustizia funziona un micidiale effetto estensivo: «Ci sono professioni, che si richiamano ad alti valori ideali, per cui un singolo scandalo può inquinare la visione dell’intera categoria. Succede per i magistrati, i politici, i giornalisti, anche per i preti, chiamati ad agire in nome della giustizia, il bene comune, la verità, Dio. Se un dentista sbaglia, non si accusano tutti i medici. Ma ogni magistrato deve essere consapevole che il suo comportamento può compromettere la credibilità di tutta la giustizia. Nel caso Tortora, l’errore giudiziario fu commesso da pochi. Ma da lì nacque il referendum sulla responsabilità civile, che colpì tutti i magistrati. Per uscire dalla crisi servirebbero riforme di altissimo profilo».

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