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Davvero la Divina Commedia ha un modello arabo? No: ne ha almeno due

Un racconto del viaggio di Maometto in Paradiso. Ma anche un poeta che manda all'Inferno i suoi nemici. L'arabista Francesca Corrao ci guida tra i grandi autori islamici che possono avere ispirato Dante. Dalla newsletter dell’Espresso sulla galassia culturale araba

Cent'anni fa la notizia fece scandalo, e si capisce: «Nel 1919 esce un saggio che lega la Divina Commedia a un testo che racconta il viaggio di Maometto in Paradiso», ricorda Francesca Corrao, docente di Lingua e cultura araba e direttrice del Master sull'Islam alla Luiss. «Erano gli anni delle colonie in Libia e in Etiopia, dell'italianità: si può capire che mettere in discussione l'originalità del Sommo Poeta, ipotizzare addirittura un debito verso la cultura araba suonasse come un affronto. Ma davvero oggi ci si scandalizza ancora per quel legame?» Ci si scandalizza, sì: è bastato che in un articolo della Frankfurter Rundschau venisse citato “Il libro della Scala di Maometto” come possibile fonte della Commedia per far saltar su Meloni e Salvini contro il reato di lesa Dantità.

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L'articolo di Arno Widman, molto più dotto e denso di quelli che siamo abituati a leggere sui quotidiani italiani, inquadrava Dante nella cultura del suo tempo sottolineando le innovazioni ma anche i legami con la tradizione precedente. Nei riassunti che ne sono usciti sulla stampa italiana, è diventato un attacco alla grandezza di Dante sia come autore che come persona. Un piccato Franceschini ha affidato la risposta allo stesso poeta («Non ragioniam di lor, ma guarda e passa»). A ogni passaggio della polemica, si perdeva una fetta delle disquisizioni di Widman. Finché la pietra dello scandalo è rimasta una sola: ma davvero la “Scala di Maometto” ha ispirato la Divina Commedia?

 

Alla poesia araba, Francesca Corrao ha dedicato una vita di studi. Nel libro più recente (“I cavalieri, le dame e i deserti”, Edizioni dell'Istituto per l'Oriente C.A. Nallino), un capitolo racconta la corte di Federico II, in Sicilia, dove si scriveva in volgare, latino, arabo e greco, dove si incontravano poeti siciliani, arabi e provenzali e dove Giacomo da Lentini e Ciullo d'Alcamo, considerati i primi autori della letteratura italiana, «sono pieni di metafore arabe, di allitterazioni e modelli retorici tipici della lirica araba». Dalla Sicilia le innovazioni poetiche hanno raggiunto la Toscana: la scuola siciliana e lo stilnovismo sono strettamente legati.

 

Tutti riprendevano modelli ebraici, latini, greci, arabi: «Le idee circolavano, non si tratta di plagio», continua. «Alla corte di Federico II produceva una quantità di traduzioni di testi classici. Senza le traduzioni dall'arabo noi non conosceremmo non solo la filosofia antica ma nemmeno la matematica: diciamolo che i bizantini hanno bruciato Euclide! Di ogni nuova traduzione, Federico mandava una copia alla biblioteca di Bologna». Si spiega così per esempio l'influenza di Averroè sulla poesia di Cavalcanti, la quantità di traduzioni dall'arabo realizzate per Pico della Mirandola, e perfino gli echi di manuali del buon governo arabi nel “Principe” di Machiavelli: «L'ultimo fu scritto a Palermo da Ibn Zafar, “I conforti politici”: anche questo fu tradotto in volgare da uno studioso ebreo e mandato da Federico a Bologna».

 

E “Il libro della Scala di Maometto”? «Era un testo molto presente nella cultura araba del tempo. Ma in realtà c'è un altro modello che è ancora più simile alla Commedia», continua la professoressa Corrao. Intanto, a differenza della “Scala”, questo testo è in versi: «E l'autore è forse il miglior poeta della lingua araba, il siriano Abul Ala Al-Marri. Nella sua “Epistola del perdono” il poeta va nell'oltretomba, trova il suo maestro e poi si diverte a raccontare come incontra, tra Inferno e Paradiso, tutti i poeti suoi avversari. Molto simile a quello che fa Dante, no? Questo poema era così famoso che fu tradotto e riscritto in Spagna. Non è possibile che Dante non ne avesse sentito parlare: è ovvio che tra poeti ci si parlasse di quello che andava di moda...».

 

Tutto questo, gli studiosi lo sanno bene. «Sono argomenti che ha studiato Maria Corti e poi lo ha pubblicato una sua allieva, Anna Longoni. Al Marri invece è stato pubblicato di recente da Martino Diaz». “L'epistola del perdono” è pubblicato da Einaudi, la “Scala” da Rizzoli. Una curiosità: il saggio del 1918 di Miguel Asin Palacios citato da Widman era stato ricordato sull'Espresso, in una bustina di Minerva, da Umberto Eco, di cui Widman è traduttore.

 

Di certo, comunque, tutta la questione è un'occasione per ridiscutere le radici comuni dei poeti arabi e italiani: «Con la cacciata di ebrei e musulmani dalla Spagna, alla fine del Quattrocento, è cominciata una damnatio memoriae, e oggi studiare queste materie è come ricostruire un puzzle di cui sono stati distrutti molti pezzi. Ma, restando a Dante, ricordiamoci che il primo a fare un viaggio poetico nell'aldilà non è un italiano o un arabo ma un greco: l'Ulisse dell'Odissea. Senza contare il viaggio biblico di Giobbe, altra fonte comune a poeti musulmani e cristiani. Questo non significa che Dante non sia stato geniale: una cultura chiusa sarebbe sterile come un prato senza api. E invece in ogni materia è così: ti nutri dei grandi del passato e fai fare alla cultura un passo avanti aggiungendoci del tuo». Con buona pace di chi si scandalizza.

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