I soccorsi lenti, i depistaggi, il rogo distruttivo smentito dalle fotografie di oggetti risparmiati dalle fiamme. La procura di Livorno riapre il caso su 140 morti senza giustizia

«Una buona parte erano cotti. Il ferro del traghetto ha riscaldato la carne, l’ha arrostita, ma non l’ha bruciata. Le due persone ritrovate in sala macchine, dove non è mai arrivato niente, sono state soffocate dai fumi e anche loro cotte ma dopo parecchie ore». Loris Rispoli, presidente dell’associazione “140”, non è cinico, tiene solo vivida l’enormità rivoltante di un torto. È per non alleggerire di un grammo il peso del male, gratuito per le famiglie delle vittime e ineluttabile e senza responsabili per la giustizia, fatto a 140 innocenti, tra cui sua sorella Liana, commessa della boutique di bordo.

 

«Parlo poco di lei, mi sento di offendere tutti gli altri. Scusa ma sono molto chiaro nelle mie cose. Io sono quello che ha mandato a quel paese il comandate della Capitaneria Sergio Albanese. Disse che Livorno gli doveva essere grata perché aveva salvato la stagione turistica». Se gli dicono «sei la memoria storica del Moby» tace perché gli passano davanti le rose che muoiono piano anche loro, sull’acqua della banchina del porto di Livorno per l’anniversario. Poche ore dopo accusa un malore ed è in gravi condizioni. Sfiancato da anni di battaglie per la verità contro un muro di gomma.

 

Giulio Borrelli in conduzione al Tg1 che parlò di equipaggio distratto perché guardava Juve-Barcellona. Le “veline” della Capitaneria. I periti, negligenze così grosse da sembrare studiate, indizi che non sono mai prove, i magistrati, le incazzature, la campagna #iosono141, la fatica della memoria in Italia. Il traghetto della flotta Navarma “Moby Pince” era diretto ad Olbia.

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Il 10 aprile 1991 alle 22.25, pochi minuti dopo la partenza, entra in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, squarcia la cisterna 7 e si incendia. I familiari delle vittime la chiamano da trent’anni «strage». La Procura di Livorno guidata da Ettore Squillace Greco, invece, la ipotizza solo da due anni, nella terza inchiesta sull’incidente: unico reato non prescritto. È stato dopo la pubblicazione delle 492 pagine di relazione dalla “Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause del disastro del traghetto Moby Prince”. Perizie nuove, quasi 70 audizioni, carte mai lette prima hanno smontato una verità basata sull’inchiesta sommaria svolta da chi era indagato, la Capitaneria. Ora resta da portare in tribunale l’alibi, «sono tutti morti in mezz’ora», che servì sia a chi quella sera in rada a Livorno doveva nascondere responsabilità sia a chi, semplicemente, doveva nascondere qualcosa.

 

«Il fatto che fossero tutti morti era una deduzione logica», ha spiegato l’ammiraglio Albanese ai senatori. E poi, «com’era possibile trovare una via di accesso per andare dentro a prendere i passeggeri visto che non c’era una via di fuga dall’interno?».

 

Francesco Sanna, autore e giornalista che sul Moby ha girato un documentario e scritto un libro, classifica le carte della vicenda per il progetto “Armadio della memoria” della Regione Toscana: «È stata una narrazione tossica. L’architrave di tutto sono i tempi di sopravvivenza a bordo. Lì nessuno è morto per un trauma cranico. Accettare il rischio morte vuol dire che io accetto che tu in quel contesto possa morire e non agisco per evitarlo, questo è già un reato».

 

Per la commissione, la Capitaneria non coordina i soccorsi, non tenta di spegnere l’incendio a bordo. Non cerca il Moby. Tutte le imbarcazioni partite spontaneamente da Livorno andarono sulla petroliera che nulla fece per indirizzarle sul traghetto, «una bettolina». Un’ora e mezzo dopo l’incidente, «una nave in fiamme» la trovano per caso due ormeggiatori: appeso alla balaustra c’è l’unico sopravvissuto, il mozzo Alessio Bertrand. Gli attribuiscono le frasi «ci sono persone ancora vive», e «sono tutti morti», lui nega quest’ultima da sempre. L’Italia se lo ricorda bestemmiare dal predellino dell’ambulanza.

 

Alle 3.30 un rimorchiatore fa salire in scarpe da ginnastica un marinaio per agganciare un cavo e trainare il Moby in porto. L’ammiraglio Albanese intanto parla ai media di nebbia fitta in rada, di fiamme che circondavano a corona il traghetto, di petroliera in posizione regolare. Alle sette il cameriere Antonio Rodi viene ripreso da un elicottero dei carabinieri sul ponte di poppa. È riverso, con i vestiti intatti, accanto a corpi già carbonizzati. Lo carbonizzeranno le lamiere roventi. Alle 9, in mare, venne recuperato il barista Francesco Esposito annegato non nell’Iranian light dichiarato dalla petroliera ma nella nafta e con l’orologio fermo alle 6.

 

Al porto, col Moby coi motori ancora accessi, i vigili del fuoco ci entrano il 12 aprile. Novantuno corpi, molti col giubbetto salvagente e le valige, sono nel salone DeLuxe, l’area con le porte tagliafuoco: il personale li aveva messi in sicurezza in attesa dei soccorsi. Gerhard Baldauf e il motorista Giovanni Abbattista sono integri nella sala macchine.

 

In uno dei garage ci sono impronte di mani sulla fuliggine. Ci sono scatole intatte nella zona bar, cabine non toccate dal fuoco, strumentazioni e bocchette antincendio integre. Le nuove perizie registrano che alcuni avevano percentuali fino al 91% di monossido di carbono nel sangue, quindi avevano vissuto molto più di mezz’ora respirando gas e fumi: i periti dei primi pm si concentrano sul loro riconoscimento e non sull’individuazione delle cause della morte.

 

«Non sono qui per fare documentari, anch’io voglio andare fino in fondo». Francesco dall’inizio fa parte del team di sette amici e professionisti che lavora sul caso Moby e che ha il merito di «far dialogare le fonti», i documenti in possesso dei due comitati dei familiari. «Soldi non ce ne sono, ma se ti va sei con noi» gli rispose Gabriele Bardazza, il coordinatore e titolare di uno studio di ingegneria forense incaricato dai fratelli Chessa, i figli del comandate del Moby Ugo Chessa, per opporsi all’archiviazione della seconda inchiesta, nel 2010.

 

Per i giudici non è credibile «lo scenario da battaglia navale condito da prospetti di guerra tecnologica», in merito alla presenza di navi militarizzate americane impegnate in operazioni di carico e scarico di armi ed esplosivi della Guerra del Golfo diretti verso Camp Darby e un presunto «mercato nero» notturno in rada. E suggeriscono di rassegnarsi ad una tragedia «che bisogna accettare». «Lì ho deciso che non avrei mai fatto passare liscia questa cosa. Hanno fatto passare il Moby per un banale incidente stradale», dice Angelo Chessa dell’associazione “10 aprile”. «Mio padre rimane solo nel mio cuore. So che era uno dei migliori comandanti della marineria mercantile italiana. Era alla Navarma per stare più vicino a casa, noi abitavamo a Cagliari. Venne scelto per varare ai cantieri Benetti di Viareggio il “Nabila”, il più grande yacht del mondo, nel 1979».

 

L’unico collegamento tra ipotetici traffici illeciti e Moby lo dà l’ex Sismi in un grafico allegato ad una nota desecretata sul faccendiere Giorgio Comerio. Si intitola «Traffici illeciti internazionali: materiale bellico recuperato, scorie nucleari ed armi», ed è del 3 aprile 2003. Bardazza analizza le registrazioni radio del canale 16 Vhf utilizzato per i soccorsi e identifica grazie alla voce del capitano greco Theodossiou che la nave col nome in codice “Theresa” è la militarizzata Gallant II, fuggita dalla scena appena appreso dell’incidente. Se ne scopriranno altre due in rada, sette in totale.

 

Sanna scova un video dei primi istanti dopo l’incidente: è girato a 11 chilometri di distanza con un’ottica telescopica. Viene identificato il punto esatto dell’incidente: la petroliera è in divieto di ancoraggio. E non era arrivata dall’Egitto partendo cinque giorni prima: la Lloyd List Intelligence la vede prima a Fiumicino e poi a Genova. L’accertamento sul suo vero carico è più complicato: le indagini al terminal egiziano Sidi el Kedir si stoppano dopo il caso Giulio Regeni. Il 18 giugno 1991 Navarma (con un’assicurazione delle Bermuda) si accorda con Eni-Snam-Agip: non si attribuiranno a vicenda responsabilità.

 

La seconda paga i costi per l’inquinamento e otterrà il dissequestro in sette mesi. La prima si accolla subito i risarcimenti per evitare azioni di rivalsa. Il Moby dal 1990 era assicurato per «rischi guerra». Valeva 7 miliardi di lire, ma viene liquidato per l’intera polizza, 20 miliardi nel 1992, a indagini preliminari in corso e con Achille Onorato (padre di Vincenzo, il vero armatore) indagato. Lui, ma anche il comandante della petroliera Renato Superina e Albanese non finirono mai alla sbarra: i loro sottoposti sì e vennero assolti.

 

«Ho incontrato questo tale che chiaramente è un malavitoso, ha chiesto due miliardi per parlare [ ...] ma bisogna vedere noi, ..se è il caso di farlo arrestare. [...] Mi ha detto che l’esplosivo era a bordo e ce ne era tanto, era semplicemente nascosto forse da tanto tempo, occultato, messo lì da uno della nave. [...] Avevo il dovere di dirvelo perché abbiamo mosso queste cose che io reputo essere cose sgradite e quell’esplosivo che era sul Moby faceva parte di alti quantitativi mafiosi, sicuramente.. [...]».

 

È parte della conversazione avvenuta nel novembre 1994 registrata da Franco Lazzarini, allora presidente di un’associazione di familiari, poi sciolta, e contenuta in un fascicolo mai approdato in Commissione. Accende una luce sulle cause dell’esplosione nei locali di alloggiamento dei motori elettrici delle eliche di prua, accertata dalla Criminalpool nel 1991.

 

Le prime perizie la attribuirono al gas sprigionato. Ci sono tracce di esplosivo «ad uso civile», scrive però il Capo del dipartimento della pubblica sicurezza Parisi in un appunto inviato all’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. Ma riaccende anche le ipotesi investigative che pongono organizzazioni criminali a conoscenza, se non con un ruolo, in traffici illeciti. Ne parlò il pentito di ’ndrangheta Francesco Fonti. Nel giugno scorso è stato ascoltato anche un altro pentito, Filippo Barreca. Oggi sul mistero Moby indaga anche la Direzione distrettuale antimafia di Firenze.