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Mondo
aprile, 2021

Perché la repressione degli Uiguri da parte della Cina ora è una questione europea

Imponendo sanzioni a Pechino per la prima volta dal 1989, Bruxelles mette fine allo status quo delle relazioni con il gigante asiatico. Ecco quali sono le conseguenze

I rapporti tra la Cina e l’Europa non saranno più gli stessi. Dopo anni di relazioni cordiali in nome degli interessi economici dei 27, nell’ultima settimana di marzo Bruxelles ha varato contro Pechino le prime sanzioni dai tempi del massacro di piazza Tiananmen nel 1989, spalancando le porte a un più complesso rapporto di forza con il nuovo peso massimo della politica internazionale.


Le sanzioni decise all’unanimità sono state poca cosa. Coinvolgono solo un’impresa e quattro responsabili di medio livello e risparmiano Chen Changuo, l’ideatore della repressione sistematica del popolo uiguro nella regione dello Xinjiang. Ma il fatto che siano state per la prima volta coordinate con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada ha rafforzato il messaggio. E Pechino ha risposto con forza, ribadendo che l’Occidente deve smettere di interferire nei suoi affari interni. E, a due ore dall’annuncio, ha a sua volta imposto sanzioni a dieci cittadini europei, tra europarlamentari e studiosi, nove britannici, due americani e un canadese, oltre a nove organizzazioni che studiano la Cina e il suo costante abuso dei diritti umani. «La reazione è il segnale che finalmente stiamo facendo la cosa giusta», ha detto da Washington Adrian Zenz, lo studioso tedesco che da anni segue il dramma di tibetani e uiguri, e che ha denunciato, dati e testimonianze alla mano, l’oppressione del popolo uiguro perpetrata dai cinesi a partire dal 2017: «Pechino non teme più nessuno. Difendere gli uiguri non è soltanto una questione di diritti umani ma anche di sicurezza nazionale».


I numeri non lasciano dubbi su quello che sta succedendo in questa immensa regione occidentale all’ombra dell’altipiano tibetano. Di origine turcomanna e di fede musulmana, gli uiguri sono circa 11,5 milioni. Storicamente, come i tibetani, hanno goduto di autonomia culturale e sociale all’interno delle loro comunità. Ma nell’ultimo ventennio non si sono adeguati allo sviluppo economico e al credo materialista imposto al Paese dal partito comunista. Sono rimasti una comunità arretrata, legata alla terra, alla religione e alle tradizioni. Quando hanno cercato di rafforzare le proprie radici culturali nei primi anni Duemila i cinesi hanno risposto con l’oppressione.

 

Sono seguite le sommosse di Urumqi nel 2009 e l’auto bomba a piazza Tiananmen nel 2014. «Una situazione inaccettabile per un partito totalitario che vede come minaccia al proprio potere qualsiasi comunità, credo o ideologia alternativa», dice Zenz. Così nel 2016 il presidente Xi Jinping invia nello Xinjiang Chen, il governatore che domò col sangue le proteste tibetane del marzo 2008. Prima mossa: l’assunzione di centomila poliziotti e la costruzione di settemila stazioni di polizia in dodici mesi. Seconda mossa: l’apertura dei campi di rieducazione e dei campi di lavoro forzato (pubblicizzati nel resto della Cina come dorate opportunità lavorative per gente rozza e ignorante) in cui sono entrati circa 1,8 milioni di uiguri, quasi un quinto dell’intera popolazione.

 

Infine, Chen crea scuole-dormitorio destinate a uniformare al credo del Partito i figli di detenuti, internati e prigionieri. Gli intellettuali e i personaggi carismatici che si oppongono a questa strategia sono spediti in un carcere da cui difficilmente riemergeranno. È lo stesso metodo applicato al dissidente cinese Liu Xiaobo, Nobel per la pace “in absentia” nel 2010, morto in prigione nel 2017, e copiato oggi da Vladimir Putin per l’oppositore Aleksey Navalny.


Il simbolo della resistenza uigura è Ilham Thoti, l’economista che criticava la politica cinese nello Xinjiang e chiedeva autonomia per il suo popolo. Arrestato nel 2009 e poi liberato sotto pressione internazionale, nel 2014 è stato nuovamente incarcerato. Da allora è sparito, nonostante la Ue gli abbia conferito nel 2019 il Premio Sacharov, la più alta onorificenza, ritirato dalla figlia Jewher. «Non lo sento del tutto da tre anni, nessuno della mia famiglia ha più sue notizie e temo per la sua vita», dice lei dagli Stati Uniti, dove è rifugiata politica, mentre denuncia le condizioni di vita nei campi di detenzione e di lavoro forzato: «Sono simili a quelle dei campi nazisti. La gente non muore di fame ma le donne sono sistematicamente sterilizzate e violentate in gruppo. A molti vengono somministrate medicine non testate e impedito di dormire; sono torturati con l’elettroshock; sono deprivati regolarmente di acqua e cibo. Vivono in 30-40 in una stanza, devono decidere chi dorme e chi resta in piedi. La doccia è un sogno. Le malattie realtà quotidiana».

 

Campi di cotone nella regione degli uiguri


Per anni le autorità cinesi hanno avuto buon gioco nel rappresentare gli uiguri come pericolosi terroristi, aiutati dal fatto che Washington, all’indomani degli attacchi alle torri gemelle nel 2001, avesse definito il Partito islamico del Turkestan dell’Est (Etim), fondato nel 1997 in Pakistan da uno uiguro poi ucciso nel 2003, un’organizzazione terrorista e l’avesse accusata di incendi, assassinii e attentati a mercati e alberghi su territorio cinese. «Si trattava di uno scambio con la Cina per ottenere l’avallo all’invasione dell’Iraq», dice James Millward, professore di storia cinese all’università di Georgetown: «È dal 2003 che non è più una minaccia».


Ma la Cina ha continuato ad usare la propaganda contro l’Etim per giustificare le crescenti misure repressive in Xinjiang fino al novembre scorso, quando gli Usa hanno tolto l’organizzazione dalla lista dei terroristi internazionali. Gli uiguri sono diventati ufficialmente vittime. E non vittime qualsiasi. Secondo l’amministrazione Biden e i parlamenti di Olanda e Canada sono vittime di genocidio. «Quello che le autorità cinesi presentano come un programma di riduzione della povertà è in realtà una misura volta a distruggere le strutture sociali uigure, la loro composizione demografica e il loro modo di pensare», scrive Zenz nel suo ultimo rapporto sul trasferimento forzato di manodopera in Xinjiang: «Secondo la definizione del tribunale penale internazionale si tratta di crimini contro l’umanità».

 

Il leader cinese Xi Jinping


Il volto europeo della battaglia politica a favore degli uiguri è l’eurodeputato socialista francese Raphaël Glucksmann, che come Zenz e il collega verde tedesco Reinhard Bütikofer, capo della Commissione dell’europarlamento per le relazioni con la Cina e l’intera Commissione per i diritti umani, è sulla lista rossa di Pechino. «Proprio noi europei non possiamo dimenticare che la nostra Unione è nata sulle ceneri di una lezione chiave», dice Glucksmann a Bruxelles: «I crimini contro l’umanità riguardano l’intera umanità». Per questo le istituzioni europee non possono più chiudere gli occhi: «La Cina considera noi europei deboli, incapaci di opporci alla sua ascesa. Non possiamo permettere a una potenza che compie tali crimini di crescere senza incontrare resistenza. Dobbiamo smettere di pensare che non possiamo farci nulla».
Lo scorso 30 dicembre, dopo sette anni di negoziati, Commissione e Consiglio europeo hanno siglato in fretta un accordo di investimento con la Cina.

 

A volerlo a tutti i costi era stata la cancelliera tedesca Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione, con in testa gli interessi di Volkswagen. Il consenso dell’Europarlamento avrebbe dovuto essere una formalità. Ma in soli tre mesi il clima è drasticamente cambiato. E Pechino ha finito per sanzionare proprio coloro che avrebbero dovuto ratificare l’accordo, avallando la tesi di chi ha sempre sostenuto che l’obiettivo cinese non fosse economico ma strategico: allontanare l’Europa dagli Usa nel momento di passaggio tra le due amministrazioni. «Pechino teme un’alleanza internazionale e non è un caso che, a tre giorni dalle sanzioni, abbia spedito il suo ministro della Difesa in Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria per parlare di alleanze militari», dice Theresa Fallon, direttrice del Centro studi euro-asiatici di Bruxelles: «Sta dicendo all’Occidente che non sarà facile isolarla».


Ma non è detto che l’eccesso di attivismo cinese porti i risultati sperati. L’accordo sugli investimenti siglato a fine anno ha finito involontariamente per fare molta luce sulle persecuzioni nello Xinjiang. L’Unione europea è tenuta a inserire clausole ambientali e sociali nei nuovi accordi internazionali: le parti devono impegnarsi a rispettare le convenzioni sul lavoro dell’Ilo. Ma quando il testo di quell’accordo è stato diffuso il mese scorso è diventato immediatamente chiaro che le uniche aziende europee che ne avrebbero tratto benefici sarebbero state le multinazionali in grado di investire oltre un miliardo di euro e che i cinesi non si sarebbero seriamente impegnati a rispettare i diritti dei lavoratori. Così la questione del lavoro forzato degli uiguri nei campi di cotone dello Xinjian, dove si raccoglie il 20 per cento del cotone mondiale, è diventata una linea rossa talmente imprescindibile da mettere d’accordo i capi di Stato europei sulla bontà delle sanzioni. Contestualmente, la campagna lanciata mesi fa dalla “Coalizione per porre fine al lavoro forzato degli uiguri”, che vuole convincere le multinazionali dell’abbigliamento a cessare l’acquisizione del cotone uiguro, ha ritrovato slancio.

 

Ilham Thoti, economista e attivista uiguro: non si hanno sue notizie da tre anni

Dopo H&M, Nike e Marks & Spencer anche la tedesca Hugo Boss e l’italiana Oviesse hanno annunciato di non avere nessuna azienda della loro filiera che acquista in Xinjiang. La Cina, che nega ogni abuso, ha risposto incoraggiando il boicottaggio contro tali aziende. Dal canto loro politici e attivisti per i diritti umani hanno annunciato di volere lo strumento di un boicottaggio politico ed economico contro le Olimpiadi invernali che Pechino ospiterà nel 2022. «Non chiediamo agli atleti di non competere ma domandiamo agli sponsor di spendere diversamente i loro soldi e ai capi di Stato di non presenziare», dice Bütikofer, cogliendo l’invito di una Coalizione di oltre 180 organizzazioni.


Le probabilità che abbiano successo al momento sono poche. Tanta è invece la differenza con tredici anni fa. Le Olimpiadi del 2008 celebrarono Pechino come nuova superpotenza economica. Quelle del 2022 vorrebbero sancirne il ruolo di nuovo leader mondiale. Ma questa volta non tutti avranno voglia di festeggiare.

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