Giuseppe Prezioso aveva un talento straordinario per ideare prodigi meccanici. Con la portatile lanciata nel 1935 il celebre scrittore americano compose alcuni capolavori. Come “Il vecchio e il mare”

Non esistono equazioni esatte, nella letteratura come nella vita, ma se Ernest Hemingway ha composto i suoi capolavori della maturità come “Il vecchio e il mare” e “Per chi suona la campana”, lo si deve un po’ anche a un molisano, figlio di povera gente, in fuga da terre desolate. Si chiamava Giuseppe Prezioso, era un ingegnere ed è considerato l’inventore della Hermes Baby, la gloriosa macchina da scrivere portatile ed economica made in Svizzera. Lanciata nel 1935, a renderla immortale fu proprio il grande scrittore americano, di cui il prossimo 2 luglio ricorrono i sessant’anni dalla morte.

Il premio Nobel non se ne separava mai, tra una love story e una corrida, un matrimonio e un incidente aereo, una battuta di caccia e una buona bevuta. Che fosse in Spagna durante la guerra civile, a pesca a Cuba o in Kenya per un safari come nel romanzo “Verdi colline d’Africa”. Anche John Steinbeck ne possedeva una, e la poetessa Friederike Mayröcker dichiarò di averla sposata. Divenne un immediato oggetto di culto, una star planetaria. Robusta, compatta, per nulla ingombrante: pesava appena quattro chili, sei centimetri di altezza (quattro in meno della concorrenza) e per un costo di soli 160 franchi. Forse la più popolare, nel suo segmento di mercato, di sempre, priva di angoli e con quel nome pop. Un trionfo di stile e convenienza.

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In una pubblicità d’epoca, si legge: «Un regalo per la famiglia, la casa e il viaggio. Pratica, leggera, costruita con cura, il suo tocco piacevole vi incanterà per anni». Ne sarebbero fiorite diverse versioni e l’avrebbero acquistata milioni di cittadini per dattiloscrivere le loro emozioni, la loro visione dell’attualità e dei concetti astratti. Individui comuni, come Giuseppe Prezioso, il suo artefice. «Era nato, come ho scoperto dopo meticolose ricerche, a Tavenna, un paesino in provincia di Campobasso, nel 1897, da padre calzolaio e madre casalinga», spiega all’Espresso Geremia Mancini, ex sindacalista innamorato della storia e delle storie della sterminata emigrazione italiana che fu. Specie quella di massa, di matrice meridionale: «Ho cercato di sottrarre all’oblio le parabole di centinaia di persone venute dal sud e affermatesi nel pianeta, controvento».

La vicenda di Prezioso è paradigmatica. I genitori che fanno ogni tipo di sacrificio per mandarlo a studiare fuori. La laurea a Milano, al Politecnico, in Ingegneria. Il primo impiego alla Marelli. Il passaggio all’inglese Oliver e all’elvetica Paillard, che resta abbagliata dal suo talento nel confezionare prodigi meccanici e riesce a ingaggiarlo. Il trasferimento definitivo a Yverdon, nella Svizzera francese, all’alba degli anni Trenta, dove l’azienda ha una delle roccaforti operative. La creazione della Hermes 2000 prima, della “Baby” poi, perfetta per le nuove generazioni. Il varo e il decollo di un mito, osservati con le lenti da migliore attore non protagonista. La pensione nel 1958 e il decesso nel 1962. Tra l’altro, al suo successo aveva contribuito un altro nostro connazionale che lavorava alla Paillard in qualità di manager delle vendite, alchimista del marketing moderno, Gualtiero Thieben. Quest’ultimo chiarì così il mistero del naming: «È quello che risponde meglio per requisiti tecnici, fonetica e grafica all’annuncio pubblicitario. Queste due parole unite hanno il vantaggio di formare un significato complementare: Hermes Baby significa bambino Hermès, o piccolo Hermès. E il fatto che abbiamo già veicolato un gran battage per l’introduzione del dispositivo cinematografico amatoriale Pathé-Baby, con i suoi film su pellicola da 9,5 millimetri, ci favorisce, perché la parola inglese “baby” è già entrata nell’orecchio del pubblico in generale. Non solo in Francia, ma nel mondo intero».

La loro mini-macchina da scrivere sarebbe rimasta a ticchettare sino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, incurante delle mode del momento, inespugnabile, finché ha potuto, dalle armate del cosiddetto progresso tecnologico e del monoteismo elettronico e digitale. Oggi non ne mancano comunque i collezionisti: esteti, anticonformisti, mercanti di nicchia, amanti di classici del passato, esuli dalle angustie del quotidiano. Proliferano le aste dedicate online. Con poche decine di euro o di dollari, ti connetti a un analogico paradiso perduto, visti gli illustrissimi precedenti. Da rivivere e digitare con gentilezza, coraggio e sentimento.

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In fondo ogni scrittore ha avuto la sua macchina-feticcio, dal tardo Ottocento in avanti. Le dita che scivolano fluide ed estatiche su certi tasti prediletti. Una trance gestuale e rituale. Jack Kerouac, il guru della Beat Generation, era uno dei più rapidi, oltre 110 parole al minuto. Dal 1958 aveva adottato un’erede della Baby, la Hermes 3000 modello Curvy: prima era devoto alla portatile yankee Underwood, con cui sciorinò “On the road”. La stessa usata da Virginia Woolf e Francis Scott Fitzgerald, che ne adoperarono inevitabilmente un prototipo più voluminoso e primitivo. A partire dal 1907, Henry James prese a declamare i testi delle sue opere alla fida Theodora Bosanquet, che li trasferiva su una altrettanto ciclopica e rudimentale Remington (in principio un’industria bellica): l’ispirazione, la dettatura del narratore a stelle e strisce naturalizzato britannico si inceppava se non ascoltava battere i tasti. Una musica concreta che volle riassaporare, in extremis, in punto di morte.

Mark Twain è stato probabilmente, ipse dixit, «il primo a usare la macchina da scrivere in letteratura, avendo fatto copiare il mio manoscritto nel 1874». E parliamo nientemeno che de “Le avventure di Tom Sawyer”, pubblicato nel 1876 e redatto su una Remington ante litteram. L’elenco è oceanico: la Oliver di Franz Kafka e la Royal di Truman Capote e George Simenon; la Royal Portable di George Orwell e John Cheever e la Royal Quite Deluxe di Ian Fleming, placcata in oro; la Remington Portable no. 2 di Agatha Christie; la Everest di Ezra Pound; l’Olympia SG di Charles Bukowski; l’Olympia SM3 deluxe di Woody Allen; la Triumph Tippa Adler gialla di Stanley Kubrick; la MP1 dell’Olivetti di Marguerite Duras e Camilla Cederna (per lei, rossa squillante); la lettera 22 di Leonard Cohen, Pierpaolo Pasolini, Sylvia Plath e Leonardo Sciascia, che giunse a vendere 200 mila pezzi l’anno. Secondo Marshall McLuhan, scrivere a macchina, per un poeta, è come tuffarsi in una jam session jazz. La battaglia industriale e artistica delle maiuscole e delle minuscole, dei caratteri d’autore impressi su carta è stata combattuta nel corso del Novecento, senza esclusione di nastri, tra gli Stati Uniti e il Vecchio continente. Ne rende testimonianza, a Milano, il Museo della macchina da scrivere, aperto da un cultore della materia come Umberto Di Donato: al momento, la collezione consta di 1.800 esemplari.

Ma torniamo a Hemingway. C’è un’altra pagina sconosciuta ed epica che lo riguarda, scovata da Geremia Mancini: «Come noto, durante la Grande Guerra era sul nostro fronte come volontario dell’American Red Cross, in prima linea nell’assistenza ai nostri soldati. E se non vi fosse stato un giovane prete sarebbe morto, in quella fatidica notte del 8 luglio del 1918 a Fossalta di Piave». A salvargli la pelle non sarebbe quindi esclusivamente stato, in base a quanto teorizzato due anni fa dal biografo James McGrath Morris, un militare di Montalcino, Fedele Temperini, che, falciato da un colpo di mortaio austriaco, finì per fare da scudo col suo corpo al romanziere in erba. «Si chiamava Don Gerardo, era il cappellano di un reggimento di fanteria quando incontrò e diventò amico dell’allora 19enne Ernest. E quando questo venne ferito gravemente, fu lui a riconoscerlo, in un coacervo di soldati morenti». Lo soccorse e lo consegnò, just in time, ai medici. Dopo averlo battezzato e convertito al cattolicesimo. Anzi, nel dubbio gli diede anche l’estrema unzione.

Verità inedite contenute nel diario del sacerdote, reperito da Mancini dopo un tourbillon di richieste, sondaggi e indagini a tappeto in numerosi conventi della penisola. «Nel 1927 si recò a trovarlo nel monastero di Rapallo, per ringraziarlo e recuperare il certificato del suo battesimo. E poi un abbraccio lunghissimo e commovente tra i due». E quando, due anni dopo, scrisse “Addio alle armi”, per la figura del cappellano militare si ispirò proprio al prelato, quasi coetaneo, che l’aveva strappato all’abbraccio precoce della Grande Mietitrice.

I vinili hanno riguadagnato stabilmente il centro della scena: chi ci dice che un simile e duraturo revival non investa, presto, le macchine da scrivere? Pc, smartphone, tablet: erano meglio le Qwerty di una volta, asseriscono gli appassionati. Pensate che Hemingway sarebbe riuscito a stendere un mezzo foglio di uno dei suoi “Quarantanove Racconti” con una tastierina Bluetooth? «Tutto ciò che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare», ha affermato lo scrittore più emblematico del ventesimo secolo. E i microchip sono cellule artificiali: si riproducono, ma non vivono.