La rete del cardinale nel crac che ha terremotato il sistema bancario. Il Risiko di Mincione e Torzi dall’affaire sul palazzo di Londra alle speculazioni all’ombra della Chiesa che coinvolgono familiari e amici del prelato

Quelle che si stanno consumando in questi giorni sono le ultime battute dell’inchiesta giudiziaria più complessa che la Città del Vaticano abbia affrontato negli ultimi decenni. Un’inchiesta partita dal prosciugamento dell’Obolo di San Pietro e del conto personale di Papa Francesco per acquisire il famigerato palazzo al 60 di Sloane Avenue a Londra e che è giunta, col passare dei mesi, a far emergere tutte le contraddizioni che alimentavano la gestione della macchina economica della Chiesa prima dell’avvento di Papa Francesco.

 


Tre anni di indagini che hanno scavato in profondità tra le pieghe di conti offshore e investimenti irregolari e sono diventate il simbolo della lotta contro la corruzione di Bergoglio, che oltre ai vari magisteri spirituali, ha raccolto il testimone di Benedetto XVI per rifondare la credibilità dello Stato vaticano. Una mole di indizi, di conti cifrati, di società, di nomi e numeri, portata alla luce con meticolosità dai promotori di giustizia Alessandro Diddi e Giampiero Milano, in una gincana che ha coinvolto vari Paesi (Italia, Svizzera, Regno Unito, Lussemburgo e Malta).

 

Diverse procure della Repubblica in questi giorni hanno richiesto alla Gendarmeria Vaticana gli atti dell’inchiesta e delle rogatorie per dipanare altri rebus: processi su scandali finanziari riguardanti numerosi istituti bancari. L’attività investigativa vaticana potrebbe risultare utile alle procure di Siena per il caso Monte dei Paschi, a quelle di Bari e Milano per le indagini sul crac della Popolare di Bari e di Vicenza, a Genova per la scalata Carige. Tutti dossier che hanno come protagonisti i «gemelli diversi» della compravendita del palazzo di Londra, Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, quest’ultimo arrestato a Londra e in attesa dell’estradizione chiesta dai pm di Roma per false fatturazioni e autoriciclaggio. Mincione e Torzi, stili antitetici, il primo di Pomezia e il secondo di Guardalfiera in provincia di Campobasso, sono uniti dalla passione per le operazioni rischiose, muovendo soldi di enti e fondi creati ad hoc in un gioco delle tre carte dove alla fine a perdere è sempre qualche investitore (come nel caso del Vaticano).

 

I due fingono di non conoscersi ma fanno affari insieme, come racconta una sentenza dell’Alta Corte inglese che ha condannato Gianluigi Torzi al pagamento di 10 milioni di sterline alla compagnia assicurativa italiana Net Insurance per la vicenda dell’appropriazione indebita di quote azionarie per 26 milioni di euro. Torzi, secondo i giudici, ha utilizzato le quote di Net Insurance con la sua società Sunset Financial Ltd, sede a Malta, per rifornire una linea di credito alla società Pop 12 di Mincione, con sede in Lussemburgo. I fondi sarebbero stati poi utilizzati da quest’ultimo per la scalata a Banca Carige nel 2018. Il broker molisano è amministratore delegato di società di diritto inglese e lussemburghese, attive in vari campi e utili per speculazioni in tantissimi ambiti, dalle comunicazioni al food passando per l’arte e fino agli investimenti immobiliari. Una giungla di sigle sulla quale Torzi ha fatto arrivare i proventi di quella che secondo l’ipotesi dei promotori di giustizia vaticani è stata una estorsione ai danni della Santa Sede, maturata con la complicità dell’ufficio dell’ex Sostituto agli Affari Generali, Angelo Becciu. Nella cronologia della spoliazione del palazzo di Londra, Torzi arriva ultimo in lista, introdotto da Giuseppe Milanese, della Cooperativa Osa, come risolutore dell’acquisizione dell’edificio.

 

Il playmaker del meccanismo corrutivo, secondo gli inquirenti vaticani, è Fabrizio Tirabassi, impiegato, fedelissimo di Becciu, che diventa anche consigliere di amministrazione della società Gutt Sa di Torzi. Gestisce il riacquisto dell’immobile londinese, è indagato per peculato e truffa dalla magistratura vaticana e, nel corso degli anni di lavoro negli uffici di Becciu, avrebbe incamerato un patrimonio complessivo di 14 milioni di euro. Soldi che ovviamente non provengono dal suo stipendio alle dipendenze della Santa Sede ma da consulenze e ripartizioni legate agli affari trattati dal suo ufficio, trasformato, nel corso degli anni, in una centrale operativa degli investimenti più disparati, come dimostra la rogatoria di Roma che ha portato all’arresto del molisano. Tra i vari faldoni emergono alcuni contratti di consulenza che la Cooperativa Osa di Giuseppe Milanese avrebbe stipulato con Fabrizio Tirabassi e il finanziere Enrico Crasso, allo scopo di perfezionare la cessione dei propri crediti sanitari in un primo momento proprio alla Sunset ltd di Torzi.

 

La cooperativa Osa, inoltre, caso unico nel bilancio della segreteria di Stato, ha usufruito di un prestito obbligazionario: Enrico Crasso dà il via libera all’investimento da parte della Santa Sede, ma contemporaneamente – in corrispondenze emerse negli atti - sconsiglia di fare altrettanto a Monsignor Mauro Carlino (altro impiegato dell’ufficio di Becciu), che vorrebbe investire nello stesso modo i propri denari.

 

Ma la generosità nei confronti della cooperativa di Milanese non si ferma qui perché la Segreteria di Stato finanzia con centinaia di migliaia di euro altre iniziative di natura assistenziale e sanitaria. Un modus operandi che svela come la funzione pubblica di impiegati e gestori delle casse vaticane abbia intrecciato utilità private, dentro un meccanismo consolidato che vede i protagonisti legati a doppio filo in un crescendo di intrecci, consulenze e reciproche omissioni. Fino all’ultimo, Tirabassi ha incassato cospicue somme di denaro da Torzi che ricevette i complimenti di Raffaele Mincione per aver chiuso una operazione che avrebbe permesso al gruppo di continuare il giro speculativo per altri mesi ancora. Torzi, per festeggiare l’impresa, acquistò, con i proventi delle false fatturazioni emesse per servizi mai erogati alla Santa Sede, uno yacht, battente bandiera maltese, che al momento è parcheggiato nelle acque del porto de La Valletta.

 

Angelo Becciu


Paradossale oggi immaginare che mentre la Chiesa di Papa Francesco si prodiga per il soccorso dei migranti nelle acque del Mediterraneo qualcuno, lucrando i soldi delle offerte abbia comprato proprio una barca di lusso nella generale omertà, nonostante le innumerevoli segnalazioni della Gendarmeria vaticana.
È in questo clima che nel corso del tempo gli Affari Generali, guidati dal cardinale Angelo Becciu, assumono le funzioni di una sorta di dicastero delle finanze. In questo contesto vanno collocati i privilegi di cui la famiglia del cardinale Becciu ha usufruito nel corso di questi anni. Secondo gli inquirenti, modalità non in linea con i regolamenti della Santa Sede sarebbero quelle con cui sono stati gestiti i fondi anche in favore di enti terzi, come la Diocesi di Ozieri.

 

Come raccontato in precedenza, è la diocesi a far da ponte per far arrivare alla cooperativa Spes, gestita dal fratello di Angelo Becciu, Tonino, circa 800 mila euro della Conferenza episcopale italiana e della Segreteria di Stato. Di contatti e pubbliche utilità è invece la natura del progetto Birra Pollicina dell’altro fratello del cardinale, Mario Becciu, docente di psicologia alla Pontificia università salesiana, che, come racconta il report sulle finalità del progetto, aveva intenzione di coinvolgere, oltre alla Caritas di Roma per il co-marketing della birra, l’ospedale Bambino Gesù per la realizzazione del progetto pilota sull’inserimento dei ragazzi con spettro autistico, le abbazie per la produzione di birre di tipo abbaziale, il Cnos dei salesiani per la formazione professionale. Fanno parte del progetto anche il figlio Francesco Maria Becciu e il cognato Francesco Colasanti. Il tutto finanziato dalla generosità di Antony Mosquito, tycoon angolano, amico del cardinale Becciu e di conseguenza amico anche di Mario. L’amicizia e il “tengo famiglia” non sono reati ma tutti gli attori di questo progetto incrociano i vari ambiti degli affari della Segreteria di Stato. Quel «metodo Becciu» di cui il presule sardo non è l’ideatore ma che ha saputo ben collaudare.

 

La conclusione dell’inchiesta non dipanerà tutte le domande intorno all’indotto economico generato dai protagonisti di questa vicenda poiché le autorità svizzere ancora non hanno liberato tutta la documentazione intorno ai conti correnti degli indagati. Il via libera potrebbe giungere però anche durante il dibattimento. Il panorama di corruttela emerso da questa inchiesta ha generato una serie di “motu proprio” sulla giustizia di Papa Francesco. A novembre aveva già spostato la cassa della Segreteria di Stato sotto la giurisdizione dell’Apsa e ha poi abrogato la norma dell’ordinamento giudiziario vaticano per cui solamente la Cassazione, previo assenso dello stesso Pontefice, poteva processare vescovi e cardinali nelle cause penali e ha varato una nuova legge contro la corruzione per dirigenti e amministrativi vaticani che devono essere incensurati, dichiarare di non avere condanne o indagini in corso per terrorismo, riciclaggio, evasione fiscale, non avere beni nei paradisi fiscali o investire in aziende che operano contro la dottrina della Chiesa. Anche i dipendenti non potranno ricevere doni per un valore superiore ai 40 euro. A prescindere dai processi, sembra comunque finito il tempo delle ombre nella Chiesa di Roma, che ha elevato agli altari due settimane fa il magistrato martire di mafia Rosario Livatino, istituendo anche un gruppo di studio per la «scomunica alle mafie». La barca di Gianluigi Torzi non solcherà i mari, ma quella di Pietro continuerà la rotta «senza né oro né argento». Nonostante le burrasche.

 

 

Si ribadisce che il Dott. Giuseppe Maria Milanese non è stato mai indagato dal Tribunale dello Stato del Vaticano per i fatti di cui in articolo e che ha partecipato al processo nella esclusiva qualità di persona informata sui fatti.