Vent’anni dopo, i fatti tragici del G8 sono una ferita ancora aperta per l’omertà sulle responsabilità politiche e istituzionali. Ignorata dai giovani

È difficile spiegare lo sconcerto che si prova quando, a tavola tra diverse generazioni, le persone più grandi parlano di un fatto storico per loro portante e d’improvviso si rendono conto che i ventenni presenti non sanno minimamente di cosa si tratti.

Se poi l’argomento è il G8 di Genova del 2001, di cui tra un mese esatto ricorre il ventesimo anniversario, lo sconcerto decuplica. Come è possibile che persone nate in Italia nello stesso anno dei fatti della Diaz e di Bolzaneto sappiano tutto dell’attentato alle torri gemelle e niente della più grave violazione dei diritti umani perpetrata da sedicenti servitori dello stato nell’Europa democratica del dopoguerra? Come è potuta bastare appena una generazione per perdere la memoria di un orrore così grande che persino i protagonisti delle violenze lo hanno definito “macelleria messicana”?

La ragione è nella stessa incredulità delle persone della mia età, il cui stomaco si chiude ancora al solo sentir nominare Genova. Perché noi c’eravamo. Noi abbiamo visto centinaia di esaltati in divisa menar colpi alla cieca sulla folla inerme che manifestava. Abbiamo presenti i volti dei corrispondenti di Indymedia ridotti a poltiglie insanguinate dalle manganellate e dai calci alla Diaz, i loro timpani sfondati dai colpi, le ossa rotte, i denti sul pavimento. Abbiamo visto i tribunali decretare che le bombe molotov ritrovate nella scuola erano state messe ad arte da poliziotti per giustificare l’assalto. Abbiamo ascoltato le testimonianze delle torture subite da uomini e donne di tutte le nazionalità per mano di membri delle forze dell’ordine italiane e ci risuona ancora nelle orecchie il grido della poliziotta che all’annuncio dell’omicidio di Carlo Giuliani esultò dicendo: «Uno a zero per noi».

Siamo statǝ testimoni di tutto questo, eppure non siamo riuscitǝ a raccontarlo nemmeno ai nostri figli e alle nostre figlie, perché ci vergogniamo. A farci vergognare non sono le violenze e le torture compiute da centinaia di membri delle forze dell’ordine - polizia e carabinieri - delle quali devono vergognarsi casomai loro.


L’imbarazzo che rende difficile parlare ai più giovani di Genova è di natura democratica e deriva dall’omertà totale che ha coperto la catena di comando che diede gli ordini per gli assalti e i pestaggi e soprattutto dalla mancata assunzione di responsabilità politica e istituzionale su quello che accadde. A tutt’oggi non solo la maggioranza dei membri delle forze dell’ordine protagonisti delle violenze non ha mai visto il carcere - grazie a prescrizioni, patteggiamenti e a un comodo indulto approvato ad hoc cinque anni dopo - ma molti di loro dopo le pene minime sono tornati in servizio e hanno persino fatto carriera.


L’ultimo esempio è quello di Pietro Troiani e Salvatore Gava, condannati rispettivamente per aver messo le due molotov alla Diaz e per averne certificato il falso ritrovamento, ma promossi vicequestori l’anno scorso con una decisione giustificata come scatto automatico di carriera. Nessun politico si è mai assunto la responsabilità di aver dato l’ordine dei pestaggi, sperando forse che credessimo alla favola delle mele marce (centinaia?) nel cesto sano. La macelleria di Genova non ha mandanti dichiarati e i vari governi succedutisi durante i processi, indipendentemente dalla maggioranza di cui erano espressione, hanno sempre impugnato i risarcimenti relativi alle condanne per i fatti del G8 che coinvolgevano forze dell’ordine e rappresentanti dello stato. È per colpa di queste cose se ora ci vergogniamo.

Quello che non riusciamo a dire ai nostri figli non è che le violenze del 2001 siano accadute, ma che potrebbero accadere ancora, perché le istituzioni non hanno preso mai la distanza necessaria per restituirci la fiducia nel fatto che non fossero state decise a monte. Questo silenzio va vinto, perché è nell’oblio e nella manipolazione della memoria che il fascismo facilmente rifiorisce. Sedetevi dunque a tavola coi ventenni e parlate, anche se dovrete farlo con lo stomaco chiuso come una noce e con quella faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova.