Il premier ha l’ambizione di andare oltre una politica sfiancata dal confronto col virus

Per comprendere se qualcosa è cambiato in lui, e quindi per tutti noi, bisognerebbe farlo parlare. Poiché però parla con una misura sobria, sarà necessario anzitutto ascoltarlo attentamente quando dice qualcosa. Mario Draghi è un uomo di peso e dunque ponderato. L’intensità esercita pressione e peso. Non si tratta di uno stile comunicativo, per garantirsi riconoscibilità nell’epoca in cui la comunicazione ha maggiore grammatura dell’azione. Per cogliere la cifra dell’anima il silenzio equivale alle parole, ma le parole continuano a pesare. Nel 2018 fu conferita a Mario Draghi la laurea honoris causa per l’economia, presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. In quell’occasione il futuro premier utilizzò un’espressione, su cui diventa possibile misurare il percorso personale, esistenziale e politico di un uomo apparentemente enigmatico e sicuramente laconico. Disse: «Il progetto del mercato interno consentì all’Europa, a differenza di quello che accadeva su scala globale, di imporre i propri valori al processo di integrazione, di costruire cioè un mercato che fosse, per quanto possibile, libero ma giusto». L’Italia è una terra che erige se stessa in modo linguistico. «Per quanto possibile» parrebbe un segnale di estrema e gelida concretezza, per cui a oggi sono ancora in molti a pensare che Draghi governi da tecnocrate. Invece quell’espressione, «per quanto è possibile», nasce soltanto in forza della conoscenza di ciò che è impossibile. Impossibile è la misura del sogno. Impossibili sono libertà e giustizia. Ma, in altro e più lugubre senso, impossibile è anche ciò che si viene a trovare fuori dalla storia, ovvero la politica. Per quanto ha dimostrato la pandemia, la politica appare una logora e inefficace ancella della realtà. Non che essa sia finita: è piuttosto sfinita. La mala gestione politica dell’emergenza, a ogni latitudine del globo, è peraltro metà del problema. Poiché non c’è solo da rispondere all’emergenza, ma anche da inventare e lanciare su traiettorie impreviste il mondo. Detto così, parrà a tutti evidente che nessun politico e nessuna politica, per come li abbiamo finora conosciuti, ha l’energia e la visione per adempiere al compito.


La fede nella moneta unica e nel mercato unico, a più riprese confessata e mai sconfessata, non è per l’attuale premier il dogma chiuso di una visione algebrica. È figlia di una visione del mondo, che ha nello stato sociale il suo principio generativo. Sembrerebbe incongruo parlare di socialismo a proposito di Draghi, ma l’incongruità è dovuta piuttosto a una questione di optometria, dipende da quali lenti si inforcano per guardare al mondo.


«Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta»: così, il 17 febbraio 2021, chiedendo alla Camera la fiducia con il suo primo discorso parlamentare, Mario Draghi, la voce tremula per l’emozione (le istituzioni, quindi, emozionano), fissava il principio cardine della sua azione di governo. Questo orizzonte, cioè pianeta e moneta, consente di percepire la vastità dell’opera a cui si deve lavorare. L’umanità, nella sua interezza, ha sperimentato per la prima volta una reazione emotiva identica in ogni angolo del pianeta e ha scelto appunto sfide planetarie. Su tali sfide e più ancora sulla loro dimensione planetaria, si gioca l’orizzonte futuro. Il dettaglio dell’anima è l’impossibile, la speranza ne è il suo correlato oggettivo. Virtù ambigua, la speranza, a cui il programma planetario di Draghi sembra guardare. «La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e della speranza», osservava Aldo Moro un anno prima della morte. Aggiungeva che non si trattava di un’asserzione religiosa, ma anche civile. Il punto di fusione tra religioso e civile sembra oggi inaspettatamente raggiunto. L’annuncio della speranza non è la speranza stessa; l’annuncio si annuncia, significa che la speranza è un dato di fatto. La frase del premier su pianeta e moneta indica una volontà certa, cioè il sintomo di ciò che sicuramente salva. Non si tratta di superinterpretare un’affermazione isolata o di flettere il pensiero altrui a desideri più o meno fuorvianti.


«Per quanto è possibile» si disegnano solchi in ciò che apparentemente possibile non è. L’uomo dei silenzi, non a caso, ha coniato uno degli slogan più citati per infondersi speranza: il “whatever it takes” per salvare l’euro continuava così: «E credetemi: sarà abbastanza». Non solo è stato “abbastanza”, ma ha invertito un’intera visione dell’esistenza, dell’onnipotenza stolida dei mercati, dell’austerità imposta a milioni di cittadini riluttanti, a prezzo del discredito e del definitivo abbandono della delega finora fondamentale nei sistemi democratici, quella di rappresentanza.


Pianeta e moneta, dunque. Noi ci troviamo in questo momento in corsa in una lunghissima curva della pista: stiamo accelerando, si disgregano e si trasformano il senso delle cose e la loro fisionomia. Andiamo a un altro ordine di mondo. A quale moneta si riferisce Mario Draghi? I miliardi del Recovery Plan sembrano eccedere le leggi del denaro, creano la manovra espansiva che non abbiamo mai visto. Il denaro sembra entrare in una fase magica e inventiva. Qui non si è ad altezza Keynes. Piuttosto, siamo nella teologia. La moneta per pagare le tasse permette di distinguere e unire Dio e Cesare e la parabola dei due debitori impartisce un insegnamento universale. Toccare la moneta, magari firmandola con il proprio nome, non è un atto tecnocratico - è invece un’azione che inerisce a una vita dello spirito. Nell’epoca del denaro digitalizzato e micronizzato, in cui avanzano i protocolli delle criptovalute, a scuotersi è l’intero quadro della moneta, cioè della delega di rappresentanza del valore. L’inversione e la coniugazione tra dare e prendere non è soltanto questione di fiscalità progressiva: bisogna leggere tutto l’umano, per agire su quel nesso. Allo stesso modo, se osserviamo il complesso di riforme strutturali che verranno progettate e forse realizzate grazie ai fondi europei, rischiamo di non vedere a sufficienza che essi serviranno al politico di nuova specie, per riformare l’Europa e non soltanto l’Italia. Che l’Italia riformi l’Europa sembrerebbe uno sproposito. Ma non lo è.


Anni fa sarebbe stato usuale che un premier come Draghi citasse la globalizzazione. Invece viene citato il pianeta. È diverso. Occuparsi del pianeta, e quindi dei pianeti, permette di cogliere il superamento della politica, un passo che l’umanità sembra avere selezionato per continuare la sua storia. È un’operazione che mette a quadro l’ispirazione del ministero guidato da Roberto Cingolani - un non politico, che svolge l’azione più politica di tutte. Se la politica faceva perno su quel piccolo cosmo che fu la città, oggi non è più la città a fondare l’azione politica. È piuttosto il pianeta, a farlo. È un salto di livello. Si tratta di vedere in ciascuna cosa l’energia, in ogni relazione, in ogni avvenimento, in qualsiasi materia. Una totalità che chiede sviluppo e stupefazione. È un portato implicito del regno installato dal virus. Attualmente è il virus a costituire il soggetto dell’economia, della politica, dell’esistenza. La quantità delle risorse e la loro dislocazione sono determinate dal virus. La politica si sfianca nella dialettica con il virus. Regna il virus, perché esso è un fatto planetario e la politica e l’economia non lo erano a sufficienza. Nella molecola che stermina i polmoni e sfinisce la politica umana, torna a farsi vedere l’invisibile. Una nuova politica planetaria richiede un acume spirituale, che ponga gli interessi sul piano di una totalità in movimento. I prossimi anni saranno determinati da canoni nuovi e appunto stupefacenti. Nell’età in cui le banche centrali saranno divelte dalla signoria digitale e i farmaci si adatteranno agli individui per proprietà nanotecnologiche, la guerra sarà trasformata e il reddito si sgancerà dal lavoro, non abbiamo bisogno di gestori di tassi di interesse, ma di persone all’altezza dell’utopia concreta.