Luigi Di Maio e Giuseppe Conte si detestano. Al punto che alla prima riga Conte sobbalza e già medita rettifica: non può accettare che il suo blasone di fu primo ministro - due volte, quasi tre al netto dei complotti - venga dopo “Giggino”. Orbene, ci si corregge. Giuseppe Conte e Luigi Di Maio si detestano. E qui si dispiega una vicenda molto umana e assai narcisista che si sviluppa attorno alle spoglie dei Cinque Stelle dopo lo scisma con la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. Con Di Maio che fa a Conte, «prego, si accomodi» e Conte che fa a Di Maio, «la ringrazio, è già roba mia». Però l’uno ha bisogno dell’altro: Luigi è azionista di un partito lacerato, Giuseppe è detentore di una popolarità salvifica. Conte il capo e Di Maio l’ex capo. Il politico acerbo e il giovane maturato. Non si è capito chi è Agilulfo e chi è Rambaldo, come i rivali nel romanzo fantastico “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino. E poi sensali, compagni, allenatori, ispiratori. Pure divertente se di mezzo non ci fosse il governo di Mario Draghi, avvolto in multipli strati di protezione istituzionale, ma con un unico avversario interno. Sì, esatto: proprio Giuseppe Conte. I parlamentari dei Cinque Stelle, in eccessivo sovrannumero, spaventati da ogni eventuale ricorso alle elezioni, hanno assistito sgomenti alla disputa legale tra l’atteso Conte e il reietto Casaleggio per accaparrarsi i codici e i profili degli iscritti a Rousseau. Così la politica si riduce a cavilli e il partito che prometteva di cambiare l’Italia scopre che il fastidio più grosso, quando ci si separa, è cambiare le password.
L’AVVOCATO DEL POPOLO COME RENZI
Il mentore Guido Alpa, tornato a sussurrare a Giuseppe con più insistenza, ne è convinto: se non fosse per il denaro, le risorse e la struttura, Conte potrebbe fondare un partito, nuovo, lindo, suo. Costa, e non c’è tempo. Conte ha fretta di capitalizzare il consenso teorico che gli attribuiscono i sondaggi e che invecchia più invecchia il ricordo delle conferenze stampa notturne, delle sfuriate contro Matteo Salvini e Giorgia Meloni, dei minuziosi e seriali decreti del presidente del Consiglio dei ministri, i leggendari “dpcm”. Di Maio non ha fretta, è il ministro degli Esteri che a Palazzo Chigi siede alla destra di Draghi e sta lì, fra i marmi della Farnesina, che osserva il singhiozzante avvento di Conte nei Cinque Stelle. Ci sono le votazioni comunali da affrontare: se Conte si vuole cimentare, Di Maio ne è felice.
A Conte serve un partito per mostrarsi e candidarsi, ma per candidarsi gli serve che il governo di Draghi si spenga entro la prossima primavera. Il piano più minaccioso prevede che i Cinque Stelle, puniti nelle urne in ottobre e consegnati a Giuseppe, ritirino i ministri dal governo durante il semestre bianco (quando le Camere non possono essere sciolte) che inizia ad agosto e si conclude a febbraio con la designazione dell’erede di Sergio Mattarella al Quirinale. Però Conte controlla soltanto un ministro, dunque gli occorre presto un incarico formale nei Cinque Stelle, un mandato preciso per trattare nel centrosinistra, per farsi ricevere da Draghi e conquistarsi la ribalta sui giornali e in televisione. Al momento si annota un po’ di ostentato nervosismo.
Stefano Patuanelli, ministro dell'Agricoltura
Il contiano Stefano Patuanelli, ministro dell’Agricoltura, si dimette di frequente. Nessuno se n’è ancora accorto perché infine si trattiene, resiste e desiste. Svolge il delicato, e ricercato, ruolo della renziana Teresa Bellanova, che nel medesimo ministero ha vissuto a lungo aggrappata al maniglione d’emergenza finché un giorno ha davvero imboccato l’uscita e ha distrutto il governo Conte II. Allora Patuanelli era al ministero per lo Sviluppo economico, era già un Cinque Stelle talmente laico che non appariva più un Cinque Stelle. Per dire, proponeva ovunque Marcella Panucci per una cadrega, l’ex direttore generale di Confindustria adesso capo di gabinetto del ministro Renato Brunetta alla Funzione Pubblica. E la sua gestione del mercato televisivo era molto apprezzata da Mediaset. Patuanelli ha tentato invano di reclutare transfughi di Forza Italia per sorreggere il governo giallorosso, ma ha fallito e, assieme a Mario Turco, Rocco Casalino e Alfonso Bonafede, rimane nostalgico, e inamovibile, accanto a Giuseppe. La nostalgia è un’emozione canaglia. Per i greci era letteralmente il “dolore del ritorno”. Qualcosa di infido per i politici.
Matteo Salvini fa sosta a Pizzo per fare colazione con un gelato e una brioche, in una foto pubblicata su Facebook
VITTIMA DI “CANCEL CULTURE”
Ogni volta che Draghi rimuove un suo seguace, Conte soffre, si agita, protesta. E Draghi finge che sia involontario, un caso. È successo con Domenico Arcuri commissario straordinario per la pandemia, con Gennaro Vecchione direttore del dipartimento che coordina le agenzie di intelligence (Dis), con Piero Benassi sottosegretario ai Servizi segreti per due settimane, con Fabrizio Palermo a Cassa depositi e prestiti (Cdp), con lo svuotamento dell’Autorità anticorruzione (Anac) presieduta da Giuseppe Busia. Al contrario Di Maio si adatta. E ci riesce con una rara abilità come ha dimostrato partecipando a tre governi diversi in tre anni o con la svolta contro il giustizialismo che ha imbarazzato Conte. Il ministro degli Esteri ha difeso Palermo in Cdp per onorare la scelta che ha compiuto quand’era al governo con la Lega, poi l’ha mollato all’inevitabile destino quando Conte era ancora strepitante eppure non fu neanche coinvolto nelle decisioni di tre anni fa. Di Maio si è spinto oltre: si è intestato la nomina ad amministratore delegato di Luigi Ferraris a Ferrovie dello Stato, anche se lo conosce appena, e un po’ goffamente ha caldeggiato Paolo Scaroni alla presidenza di Fs perché caro amico di Draghi. E mentre Conte rimuginava per le epurazioni dei suoi ex collaboratori, Di Maio si pavoneggiava per le promozioni di chi l’ha accolto e svezzato alla Farnesina: Elisabetta Belloni da segretario generale a capo del Dis, Ettore Sequi da capo di gabinetto a successore di Belloni.
SALVINI RIMEMBRA ANCORA
Salvo Patuanelli, le prefiche di Conte al governo sono già estinte. Federico D’Incà, ministro ai Rapporti col parlamento, appartenente alla corrente di Roberto Fico, era un estimatore sconosciuto, anche a se stesso, del professor Draghi. Pure la ministra Fabiana Dadone si è adeguata. Fico fu provvidenziale nel mettere in contatto Draghi con Beppe Grillo e, dopo parecchi dissidi, si è riavvicinato a Di Maio. L’ex premier ha il sostegno di gran parte dei volti noti dei Cinque Stelle, è il salvatore che invocano da settimane. Conte ha un’ampia riserva di popolarità utile sia a Paola Taverna che a Luigi Di Maio e con prudenza si è smarcato da Grillo, dopo che il comico si è intromesso mediaticamente nell’indagine per stupro che riguarda il figlio Ciro, ma è sempre più abbarbicato a un gruppo molto ristretto di parlamentari e suggeritori. L’ex premier si pensa ancora federatore del centrosinistra, un moderno Romano Prodi, soltanto che né i dirigenti del Pd né il segretario Enrico Letta sono d’accordo a differenza di quando al Nazareno comandava la coppia Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini.
Invece Di Maio ha rimosso qualsiasi vincolo ideologico. Ha ripreso persino a telefonarsi con Matteo Salvini. Una volta assaggiate le più sorprendenti combinazioni politiche, niente, proprio niente, va escluso per il futuro dei Cinque Stelle. Il paradosso è che Salvini è il miglior alleato di Conte - certo, si detestano profondamente anche loro - ma pure la Lega vuole il voto in primavera. Di Maio ha arato più campi col suo approccio doroteo: ha agganci in Forza Italia con Gianni Letta e Mara Carfagna, nella Lega con Giancarlo Giorgetti e Massimiliano Fedriga, nel Partito democratico con Lorenzo Guerini e Dario Franceschini. Sente spesso gli imprenditori Urbano Cairo e Diego Della Valle. E ha portato alla Farnesina, come consulente a titolo gratuito, l’avvocato d’affari Stefano Simontacchi dello studio Bonelli Erede nonché membro del consiglio di amministrazione di Rcs di Cairo. Oggi dentro ai Cinque Stelle c’è poco, se non un mucchio di contraddizioni. Di Maio sa come ci sono finite. Conte non se lo immagina. Di Maio aspetta le idee di Conte. Rischia di finire che Patuanelli, confuso, prende le sue cose e se ne va. E allora ci scappa il governo. O almeno un po’ di sano Movimento.