Diritti
L’identità di genere non è “ideologia gender”: l’Italia la riconosce già da anni. Ed è il paese più transfobico dell’Unione
Crociate, polemiche, anatemi. Il dibattito sulle persone transgender negli ultimi anni si è trasformato in una guerra culturale. Eppure ci sono convenzioni, leggi e sentenze della Corte Costituzionale
Ad aprile in Iowa è stata proposta una legge che obbliga le scuole ad avere un’autorizzazione scritta da parte dei genitori nel caso in cui si voglia discutere in classe dell’identità di genere. Oltre all’assenso dei genitori, ogni curriculum scolastico che tratterà l’argomento dovrà informare gli studenti dei «potenziali pericoli e esiti negativi quando si interviene socialmente e medicalmente sul genere», inclusa la possibilità di pentirsi della transizione.
Questi sono solo due dei 117 provvedimenti avanzati dall’inizio dell’anno negli stati a guida repubblicana che hanno per oggetto la comunità transgender, ribattezzati dalla stampa americana «anti-trans bill». Nemmeno durante la presidenza Trump si era arrivati a tanto: nel 2015 le leggi proposte erano state 19, salite a 55 nel 2016 e solo ora arrivate ai massimi storici. Oltre al divieto sui temi Lgbtq+, altre iniziative prevedono l’impossibilità per le persone trans di partecipare alle competizioni sportive gareggiando nel genere di elezione, restrizioni all’accesso di bagni e spogliatoi e la criminalizzazione dei medici che somministrano terapie per la transizione ai minorenni.
Il dibattito sulle persone transgender negli ultimi anni si è trasformato in una guerra culturale che si consuma a discapito di chi transgender lo è davvero. L’oggetto del contendere è proprio il concetto di identità di genere, termine che si è diffuso a partire dagli anni Novanta nell’ambito degli studi culturali e che oggi è utilizzato anche dalla comunità scientifica. Se con sesso ci si riferisce agli aspetti biologici di un individuo determinati dalla sua anatomia, genere indica quei ruoli e quegli attributi socialmente costruiti che la società considera appropriati per donne e uomini.
Tenendo conto di questa distinzione e a prescindere da come è fatto il proprio corpo, ogni persona ha quindi una identità di genere, cioè un diverso senso di appartenenza al concetto di maschio o femmina, inteso sia dal punto di vista corporeo che sociale. Sebbene di solito si parli di identità di genere soltanto quando si parla di persone transgender, anche chi non è trans ne possiede una.
Eppure, la sola parola “genere” basta a creare allarmismi e a scatenare il panico morale, come dimostra l’annoso dibattito intorno al ddl Zan nel nostro Paese. Nonostante, infatti, la legge riporti la definizione di identità di genere della Convenzione di Istanbul sulla violenza domestica che l’Italia ha già ratificato nel 2013 e che è stata convertita in legge, il riferimento all’identità di genere nella legge contro l’omofobia è stato definito «un imbroglio transumano», «un pericolo per le donne», «un concetto tutto da definire», «un terreno pericoloso».
La principale obiezione è che questo concetto cancellerebbe la «naturalità» della differenza sessuale. A consolidare l’idea ci si è messa con grande impegno la Chiesa cattolica a partire da una data e da un evento ben specifici: la Conferenza mondiale delle donne dell’Onu a Pechino, nel 1995. In questa occasione, infatti, si cominciò a usare la parola “gender” al posto di “sex” anche in un contesto istituzionale di grande importanza.
Gli osservatori vaticani presenti alla Conferenza denunciarono la «deriva relativista» che si intravedeva dietro la categoria del genere, capace di mettere in discussione persino la natura, e quindi l’ordine divino. In un quarto di secolo la Chiesa ha messo a punto i principali nodi di una supposta «ideologia gender» (il termine è volutamente lasciato in inglese), che sarebbe un vero e proprio progetto politico tentacolare per la distruzione delle differenze sessuali e della tradizione giudaico-cristiana, capace di insinuarsi nei governi, nelle scuole e nelle istituzioni.
La crescente preoccupazione verso «il gender» ha mobilitato intellettuali ed esponenti del mondo cattolico, ma anche una nuova forma di attivismo religioso, spesso dai contorni estremisti, come quello che si è riunito a Verona nel 2019 al Congresso Mondiale delle Famiglie. La contestazione all’identità di genere ha spinto poi diversi Paesi a non ratificare la Convenzione di Istanbul che vi fa riferimento all’articolo 3. Oltre alla Turchia, anche la Polonia ha in programma di ritirarsi dalla Convenzione, adottata nel 2015, e sostituirla con una carta intitolata “Sì alla famiglia, no al gender”.
Ma non sono solo ultracattolici e conservatori a opporsi all’esistenza dell’identità di genere. Anche nel mondo femminista si sono levate diverse voci contrarie, sebbene in anni più recenti. Nel 2017, infatti, il governo conservatore del Regno Unito propose di riformare il Gender Recognition Act, la legge che permette alle persone trans di cambiare i propri documenti a fronte di una diagnosi di disforia di genere, che dal 2018 non è più classificata come malattia dall’Organizzazione mondiale della sanità.
La proposta di riforma mobilitò un gruppo molto influente di femministe radicali inglesi, tra giornaliste, accademiche e anche scrittrici come l’autrice di Harry Potter J. K. Rowling. Secondo la nuova legge, mai adottata, le persone trans non avrebbero più dovuto attestare il proprio genere davanti a un giudice attraverso terapie ormonali, interventi chirurgici o diagnosi psichiatriche, ma sarebbe valso il criterio dell’autodeterminazione della propria identità di genere, come già avviene in Belgio, Danimarca, Portogallo o nella vicina Irlanda.
Tale criterio è importante non solo per semplificare le procedure, spesso lunghe e dispendiose, ma anche per questioni etiche: se l’identità di genere è «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere», la sua validità non può essere affidata alla discrezione di un giudice; inoltre le persone trans non sono malate e non hanno bisogno di una diagnosi per confermare la loro condizione.
Peccato che il dibattito sulla depatologizzazione della transessualità sia banalizzato come un capriccio, in cui il genere diventa un vezzo che si può cambiare secondo ciò in cui ci si identifica quando ci si sveglia la mattina. Questa falsa semplificazione fa la fortuna di alcune notizie - strillate dai tabloid inglesi - che nel migliore dei casi sono casi isolati presentati come allarmi sociali, e nel peggiore sono inventate di sana pianta: uomini che si autodichiarano donne per partecipare alle gare di atletica femminili e vincere più facilmente, altri che «cambiano sesso» giusto il tempo di una campagna elettorale per beneficiare delle quote rosa, malintenzionati che si mettono una parrucca in testa per entrare nei bagni femminili, e così via.
In realtà, non esistono prove che il regime dell’autodeterminazione invogli le persone a diventare transgender e uno studio dell’Ucla School of Law non ha trovato correlazione tra i cosiddetti bathroom bills – le leggi americane che permettono alle persone trans di usare i bagni pubblici che preferiscono - e un possibile aumento di violenze sessuali sulle donne. Anche i numeri dei cosiddetti “detransitioner”, chi si è pentito della propria transizione e vuole tornare indietro, sono stati ingigantiti.
In questo contesto, nessuno ricorda mai che l’identità di genere non è una novità per l’ordinamento italiano: oltre a essere citata nella Convenzione di Istanbul, è inserita anche in una Direttiva dell’Unione europea tra i motivi di persecuzione per un rifugiato politico e all’interno della legge sull’ordinamento penitenziario. Ed è stata riconosciuta da una sentenza del 2015 della Corte Costituzionale come un «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona».
Nonostante ciò l’Italia non si è di certo trasformata in un paradiso dell’anarchia sessuale: anzi, è uno dei Paesi più transfobici d’Europa, con il più alto tasso di persone trans uccise e con uno dei peggiori standard di tutela dei diritti delle persone trans nel continente. Forse, il problema più urgente da risolvere non sta nella legittimità di queste tre parole.