Convivere con il male
La strage di Utoya è stata l’avvio simbolico del suprematismo europeo
L’eccidio norvegese, il 22 luglio 2011, non fu il gesto isolato di un folle nazista. Breivik è sotto ogni aspetto l’esponente della Nuova Destra che va affermandosi sempre più, dall’Ungheria all’Olanda, dall’Italia alla Repubblica Ceca
I sopravvissuti ne ricordano ancora l’orgiastica danza di annientamento. Il crepitio dell’arma automatica seguiva il ritmo trionfante di mani e occhi. Nessuno doveva sfuggire. Raffiche contro ogni singhiozzo, scariche di mitra contro ogni respiro trattenuto. Annusava ovunque le tracce delle sue vittime: nel fruscio delle foglie, nell’acqua che si muoveva tingendosi di sangue. E sparava concentrato, mentre il sorriso suggellava la furia omicida. Fiero della violenza compiuta, si è consegnato alla fine spontaneamente. Più crudele è l’esecuzione e più potente è la maestà politica. Così anche in tribunale, mano tesa, riso spudorato e proclami minacciosi, questo gelido massacratore ha potuto autocelebrarsi come il sovrano dell’orrore.
Anders Behring Breivik, l’assassino di Utøya, che per anni ha pianificato minuziosamente la strage, è stato riconosciuto «sano di mente e penalmente responsabile». Non è un folle, né uno psicopatico. E ogni aggettivo analogo, che lo escluda dalla ragione e dalla storia, rischia di ostacolare la riflessione su un atto efferato che investe il nostro presente. Anche l’etichetta “terrorista” è qui, più che mai, un termine vuoto. Sebbene abbia guardato agli attentati compiuti da islamisti e jihadisti, Breivik non ha ucciso a caso. Ha scelto, anzi, con precisione le sue vittime, ragazze e ragazzi appartenenti all’Auf, l’organizzazione giovanile del Partito laburista norvegese. Erano insieme, in quel campo estivo sull’isola, per confrontarsi sulle proprie esperienze e progettare una coabitazione nel segno dell’ospitalità. Le pareti della caffetteria e dei dormitori erano costellate di manifesti e scritte sui confini aperti e l’accoglienza. «Morite marxisti!», così suonava la condanna, mentre venivano freddati con un colpo alla testa.
Con l’oculatezza ossessiva del complottista Breivik ha cercato i colpevoli da punire nei suoi attentati di Oslo e Utøya: non i nemici potenziali, gli immigrati, i musulmani, bensì i sottomessi, i buonisti, i traditori della patria, quelli che per stoltezza o tornaconto aprono le porte all’invasione. Sono i socialdemocratici, i “multiculturalisti”, gli “immigrazionisti”, i “marxisti culturali”, i libertari di sinistra, quelli che mirano a cancellare genere e sesso, che vogliono pregiudicare l’identità. Meritano di morire. Ecco la nuova guerra civile tra “bianchi” che si profila nel cuore dell’Europa.
Breivik non è un lupo solitario né un mostro isolato. E non è neppure semplicemente un “neonazista”, se con questo s’intende la mera espressione di un passato che riaffiora e che, seppure inquietante, resta passato. Le cose stanno ben diversamente. Breivik è sotto ogni aspetto l’esponente della Nuova Destra che va affermandosi sempre più nei paesi europei, dall’Ungheria all’Olanda, dall’Italia alla Repubblica Ceca. Di qui il valore emblematico della strage di Utøya, che politicamente non chiude una stagione, ma ne apre piuttosto una nuova. Sarebbe perciò miope non considerarla come l’inaugurazione simbolica del nuovo suprematismo europeo. È in quel frangente drammatico che la questione viene infatti alla luce in tutta la sua complessità e la sua virulenza.
La Norvegia da cui viene Breivik è la democrazia aperta e tollerante della parità di genere e della coscienza ecologica. Come spiegare quel massacro? L’interrogativo resta insieme al trauma profondo. Perché l’assassino non è, come si usa dire, un “quisling”, un collaboratore di Hitler, come lo fu Vidkun Quisling, capo di un governo fantoccio durante l’invasione tedesca. Figlio di un’infermiera e di un’economista, Breivik è il portato di un’educazione che lui, con toni di rimprovero, ha definito “superliberale”, cioè troppo permissiva, priva di disciplina, eccessivamente femminista, in grado di effeminarlo e di corromperne l’identità. È la Norvegia che, povera e ripiegata per secoli su se stessa, è divenuta d’un tratto il secondo paese più ricco del mondo grazie al petrolio e al gas. Un cambiamento per alcuni troppo rapido. Perché dover condividere benessere e stato sociale con i rifugiati, per di più islamici? E la “purezza” di un tempo? Il volto umanitario e benevolo ha celato e cela il fastidio verso l’altro, il microrazzismo, la politica del respingimento. Breivik è figlio di tutto ciò.
Basta con la «decostruzione della cultura norvegese». Questo è il tenore del suo memoriale “2083: Una dichiarazione europea d’indipendenza”, 1508 pagine che, pur tra proclami rabbiosi e continui copia e incolla, rendono bene quella posizione politica. Il 2083, il 400° anniversario della battaglia di Vienna del 1683, quando un’alleanza cristiana respinse l’assedio turco, sarà l’anno della sconfitta definitiva dell’immigrazionismo globalista. Breivik si erge a cavaliere templare, paladino dell’Occidente puro, nemico dell’Eurabia, amico dei “cristiani sionisti”, quegli evangelici neocon, ala oltranzista dei repubblicani. Ma questo è il cristianesimo dimentico di sé e delle sue origini, mescolato a miti pagani e fondato sul rifiuto dell’altro. Così può essere riutilizzato da quella “destra degli dei” che, tra Alain de Benoist e Renaud Camus, rilancia oggi la rivoluzione conservatrice. La democrazia deve essere una etnocrazia, dove il popolo custodisce se stesso. Non si tratta di immaginarsi “al di sopra” degli altri, come facevano i nazisti, bensì di non volersi mescolare e contaminare. L’invasione tacita dell’Europa è già in atto, avallata dai globalisti, perpetrata dalle Ong. Il blocco identitario deve combattere. Il fronte è ampio e Breivik stesso menziona gli schieramenti politici, compresi quelli italiani che, a partire dalla Lega per arrivare a CasaPound, sono un modello. Certo, essere identitari e sovranisti non vuol dire innescare attentati come quello di Utøya. Ma proprio di questo si discute oggi in Europa: quanto Breivik non sia l’effetto parossistico, eppure immediato, di quella visione politica che ormai appare più diffusa e radicata della vecchia socialdemocrazia.