Una distribuzione più equa è l’unica strada. Agnes Kalibata, inviata del segretario generale dell’Onu spiega le nuove proposte contro la fame nel mondo

Più potere ai piccoli: ai piccoli produttori agricoli, ai piccoli gruppi decisionali, alle strutture locali. Con decisioni motivate da risultati scientifici, ma anche e soprattutto da un maggior ascolto delle comunità e dei loro bisogni, al di là del mercato e delle sue leve. È con questa promessa che le Nazioni Unite hanno aperto, dal 26 al 28 luglio, a Roma, un vertice che anticipa il summit globale sui sistemi alimentari, che si terrà a New York il prossimo settembre. Un pre-vertice di ricerca, immaginato come momento per mettere a sistema duemila proposte arrivate da 400 gruppi di agricoltori, produttori e associazioni coinvolti in questi mesi dall’organizzazione.

Parole belle, intenzioni vaghe da lasciare sui tavoli chiusi dell’immateriale potere politico globale? Per Agnes Kalibata no. Si tratta di passi nella direzione giusta, dice, concreti come i risultati che lei stessa è riuscita a dimostrare fin qui. Nata in Rwanda, cresciuta in un campo profughi in Uganda, diventata ricercatrice in Agraria prima di entrare in politica, Kalibata è stata ministro dell’Agricoltura del suo Paese dal 2008 al 2014. In Rwanda (Stato che dopo la guerra civile ha la più alta percentuale di donne in Parlamento al mondo) ha realizzato programmi capaci di far uscire due milioni di persone dalla povertà. Dal 2014 è presidente dell’Alleanza per la Rivoluzione verde in Africa (Agra), da dove si batte per rafforzare la possibilità di un futuro sostenibile, ed efficiente, dell’agricoltura africana. Oggi è inviata speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per il vertice sui sistemi alimentari. È con questo ruolo che ha insistito sulla necessità di coinvolgere i piccoli agricoltori e le comunità indigene che producono il 60/80 per cento del cibo del mondo, ricordando come sia «impossibile parlare di costruzione e sostegno di un sistema agricolo sostenibile senza parlare del territorio dove il cibo viene coltivato, e soprattutto, senza parlare di chi controlla quelle terre. Contadini e comunità locali sembrano aver perso la loro possibilità di determinare cosa cresce sulla loro terra per via delle preferenze del mercato e dei consumatori. Un solo passo nella giusta direzione può cambiare lo sviluppo di interi Paesi». Nelle contraddizioni d’epoca, mentre gli uomini più ricchi del mondo fanno a gara a spendere miliardi per sbucare da turisti in un frammento di universo, Kalibata ricorda come l’accesso alla proprietà delle terre stia diventando sempre più disuguale: l’un per cento delle aziende agricole controlla il 70 per cento della terra coltivabile. In questo colloquio con L’Espresso insiste: lo sviluppo sostenibile passa solo dall’equità.


A cosa servirà questo pre-vertice? E quali sono le sue priorità rispetto agli incontri che si terranno a Roma?
«Il pre-summit rappresenta il traguardo di 18 mesi di lavoro, durante i quali migliaia di giovani, agricoltori, politici, scienziati, sono stati coinvolti attraverso consultazioni pubbliche e incontri per rispondere alla domanda: “come possiamo trasformare i nostri sistemi alimentari per servire meglio le persone e il pianeta?”. La mia priorità sarà assicurare innanzitutto che tutti gli Stati abbiano l’opportunità di cogliere il massimo dagli esempi e dalle idee che abbiamo raccolto in questi due anni, così che possano arrivare al summit di settembre con impegni concreti. È stato un processo unico nella storia dei vertici delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto come al centro dei sistemi agricoli ci siano le persone, e che tutti dobbiamo non solo capire cosa si rischia, ma anche riconoscere che la maggior parte delle soluzioni alle nostre domande già esiste. Dobbiamo far lavorare queste soluzioni allora! È compito di ogni Stato mettere in campo traguardi nazionali che indichino la strada per trasformare la loro struttura produttiva, sulla base del sistema complessivo. La mia seconda priorità e trovare modi per collaborare attraverso Paesi e settori, costruendo coalizioni. E la terza è che si arrivi a definire azioni chiare e ambiziose, che possano guidare i prossimi dieci anni, rispetto a come intendiamo raggiungere gli obiettivi del piano di sviluppo sostenibile secondo l’agenda 2030. Perché se teniamo il ritmo attuale, non avremo niente su cui scrivere casa».


Diceva giustamente quanto il mercato, per le richieste massificate dei consumatori, possa stravolgere le prospettive di sviluppo di interi Paesi. Le borse rischiano di avere conseguenze simili?
«Non possiamo avviare alcun cambiamento senza investimenti, ed è per questo che la finanza è una delle quattro “leve del cambiamento” del summit. Assicurare un corretto finanziamento, canalizzato nel modo giusto, può accelerare la trasformazione. Abbiamo bisogno dell’impegno sia degli attori privati che di quelli pubblici. Strumenti come i future bonds, dal mio punto di vista, hanno rivoluzionato l’agricoltura nei paesi industrializzati, dando prevedibilità sia ai contadini che agli acquirenti, oltre che sicurezza ai mercati attraverso i contratti. Questo ha permesso a molti contadini di difendersi in anticipo dai rischi sui prezzi. Ha funzionato bene nella maggior parte dei paesi occidentali, aumentando la capacità dei produttori, le forniture alimentari e la riduzione della fame. Ovviamente sono mercati influenzati dai sussidi all’agricoltura, che hanno un impatto sull’organizzazione stessa dei sistemi produttivi. Gli aiuti al settore agricolo sono un argomento fondamentale del summit, molto dibattuti durante i dialoghi preparatori, incentrati a ripensare un modo per incentivare i coltivatori a produrre cibo più sano minimizzando l’impatto ambientale».


Quali progressi e quali passi indietro stiamo vivendo secondo lei?
«Penso che già questo summit in qualche modo possa essere considerato un progresso significativo, grazie al percorso di questi due anni per la costruzione di costituenti autonome e dialoghi fra settori diversi. Ma dobbiamo far coincidere la scala del problema con le nostre aspirazioni per il vertice. Denutrizione e indigenza nel mondo sono aumentate, non diminuite, in questi anni, e l’impatto della pandemia ha dimostrato che i nostri sistemi attuali non riescono a resistere agli shock e non possono essere considerati affidabili per provvedere ai bisogni delle categorie più fragili in tempi di crisi. Il summit è l’occasione giusta per muoverci verso produzioni che siano sane, sostenibili ed eque. Il mio lavoro sarà assicurarsi che tutti gli ingredienti cruciali per agire siano esposti. Il resto dipenderà dalla volontà e dall’insistenza con cui come individui, comunità e Stati riusciremo ad innescare il cambiamento. Non ci sono soluzioni facili. Sarà difficile. Ma è anche una grande opportunità».


Ha accennato all’impatto della pandemia sulla povertà alimentare. Qual è stato su scala globale?
«Nell’ultimo Rapporto sulla sicurezza alimentare e la nutrizione del mondo si stima che 811 milioni di uomini, donne e bambine, siano vissuti senza abbastanza cibo da mangiare nel 2021. Il numero di persone che non possono permettersi pasti nutrienti continua a salire, in parallelo alla perdita di occupazione e all’aumento dei prezzi dei generi alimentari - aumentati del 30 per cento rispetto ai tempi pre-pandemici. Stiamo ancora misurando l’impatto sul resto, di sicuro sarà immenso. Ma bisogna essere chiari su un punto: anche se la pandemia ha causato uno shock enorme al sistema, causando l’impoverimento e la fame, la denutrizione a questo livello non è un sintomo del Covid-19, ma di un sistema alimentare che sta fallendo dal garantire cibo per tutti, equamente. La pandemia ha causato due importanti smottamenti. Primo: ha mostrato le disfunzionalità della nostra filiera alimentare attuale - che ha lasciato gli ultimi, sia negli stati ricchi che poveri, esposti alla denutrizione. Secondo: ha spinto altre 100 milioni di persone nell’indigenza, per non parlare dei 300 milioni di bambini che hanno perso il pranzo scolastico».


Tutto questo si aggiunge alle conseguenze del cambiamento climatico, già evidenti in molti Paesi...
«I nostri sistemi agricoli attuali sono sia causa che vittima del climate change, contribuendo come fanno per un terzo delle emissioni di gas serra, ma anche soffrendone le conseguenze in termini di temperature estreme, siccità prolungate e alluvioni. In particolare, comunque, l’impatto del cambiamento climatico sta esacerbando le vulnerabilità esistenti, specialmente in quelle zone d’Africa e del Sud-Est Asiatico dove la bassa produttività è ulteriormente schiacciata da eventi climatici estremi, sempre più frequenti. Questo sta ulteriormente riducendo i raccolti . In Africa per esempio le rese calano dal 2014. Questo impatta direttamente la disponibilità di cibo, aumenta i prezzi dei genere alimentari e contribuisce ad estendere il numero di persone denutrite, che sta crescendo dal 2015 e a volte porta a instabilità economica, sociale e politica. Secondo alcune previsioni, un aumento della temperatura globale di 2 gradi causerebbe fino a 590 milioni di persone denutrite al mondo prima del 2050. E dobbiamo riconoscere che la realtà si sta avvicinando troppo velocemente alle previsioni».


Speranze non ce ne sono proprio? Dove bisognerebbe cercarle?
«Dall’ascolto degli esempi che funzionano, intanto. E in questo il pre-vertice di Roma è un’occasione cruciale per resettare e far ripartire il sistema. Il nostro obiettivo è esattamente quello di mostrare idee nuove, forti, per riparare le infrastrutture produttivi e costruire ambienti più resilienti. Ma non possiamo farlo conversando tutti nello stesso modo e negli stessi silo (Kalibata usa la metafora agraria al posto dei recinti, ndr.). Per questo abbiamo voluto assicurarci che l’ascolto e la partecipazione in questo summit fossero i più larghi possibili, attraverso diversi settori della società, e dando priorità alle voci che troppo spesso non vengono ascoltate: le popolazioni indigene, le donne, i giovani, i piccoli produttori. Il vertice in questo senso sarà unico perché non si tratta di una negoziazione scritta con impegni raggiunti per consenso. Si tratta piuttosto di un’occasione per connettere gruppi e organizzazioni che normalmente non interagirebbero, e di imparare a rispondere ai bisogni partendo dai nostri valori comuni, dai risultati di ricerca e dalle esperienze».