Ha pubblicato il meglio di quanto è stato scritto nel passato. Ma ha anche scritto e scelto i testi che costruiranno il nostro futuro. Un omaggio appassionato

Tante cose si incrociano oggi nella morte di Roberto Calasso, come tante cose si sono incrociate nei libri che ha scritto e in quelli che ha pubblicato. Il suo penultimo lavoro, “Bobi” (Adelphi), su Roberto Bazlen e il premio Campiello alla carriera a Daniele Del Giudice che sempre su Bobi Bazlen ha scritto un romanzo, “Lo stadio di Wimbledon” (Einaudi), e nel quale sta una frase che mi pare sempre opportuna, ma oggi di più: «Bisogna tenere i libri lontani dai dolori».

 

È una posizione naturale per me, io non conoscevo Roberto Calasso, ci ho bevuto qualche volta insieme, lo incontravo in casa sua quando andavo a trovare Fleur Jaeggy, o per occasioni professionali, non ero sua amica, insomma, ma ho letto i suoi libri. "Bobi” è un racconto di editoria, e un racconto di amicizia, e un racconto di libri, di viaggi.

 

Se per conoscere un uomo – scriveva Yourcenar riferendosi ad Adriano – bisogna conoscere la sua biblioteca, allora ho conosciuto Roberto Calasso come tutti: scorrendo il catalogo della casa editrice Adelphi. Si potrebbe scrivere che è morto l’ultimo grande editore italiano, che la morte di Roberto Calasso segna la fine di un’epoca, sottolineare quanto il mondo editoriale italiano sia cambiato prima e dopo la casa editrice Adelphi, dal punto di vista dei contenuti, e dal punto di vista cromatico, si potrebbe dire che tutti almeno una volta hanno aperto almeno un libro Adelphi, l’"I-ching”, che era anche, a leggere Bobi, uno dei libri più consultati da Bazlen (l’altro era "Abbandono alla Provvidenza divina” di Jean-Pierre de Caussade). O che senza I-ching e senza leggere rimane l’Adelphi casa editrice di Simenon.

 

Calasso e tutte le persone che hanno costruito l’Adelphi,  hanno tenuto insieme, in un mondo sempre più polarizzato, nello stesso catalogo, René Guenon, Evelyne Lot-Falck e Zia Mame, La lettera d’amore di Cathleen Shine e Lo scimmiotto di Wu-Cheng En, Paolo Zellini e Shirley Jackson, gotici e perturbanti entrambi, ma il primo è un matematico. Quanto abbiamo guardato a Oriente grazie all’Adelphi, e quanto abbiamo trovato.

 

E tutte queste cose, la celebrazione del passato, le domande sull’avvenire, la gloria irraggiungibile – nonostante la gloria, come ha scritto Berto nel romanzo omonimo, sia proprio la fine del tempo – l’elenco dei nomi, conosciuti o meno, che hanno fatto e fanno grande l’Adelphi, le defezioni e le liti, i travasi da una casa editrice all’altra, le controversie e le scoperte, l’ammirazione e la distanza, tutte queste cose sarebbero vere, sono innegabili, ma mi piace pensare al suo modo di fare l’editore, esemplare, attraverso le parole del suo "Libro di tutti i libri” (Adelphi), uscito sempre quest’anno: «Nella visione talmudica, la “cosa principale”, “asl”, è lo studio, se possibile ininterrotto. Il precetto è: “Fìssati nello studio”. Tutto il resto deve essergli subordinato».

 

Non c’è la vita e, in aggiunta, lo studio. C’è lo studio – e la vita può diventare una sua emanazione: «Quando sarai stanco di studiare, potrai dedicarti alle faccende. Ma l’essenziale di ciò che ti occupa non devono essere le faccende mentre nel tempo libero ti dedichi allo studio». Mi piace pensare che l’editoria, e si intuisce dal catalogo Adelphi – così come, ma forse meglio, anche dai cataloghi dei grandi editori italiani – si occupi eminentemente dell’unica tradizione possibile, quella del futuro.

 

Ecco, in morte di Roberto Calasso, spero che nessuno di noi dimentichi la scommessa, la ricerca, l’allegria e l’ossessione di pubblicare e scrivere libri oggi che immaginino e analizzino il futuro come il passato, che riescano a invertire la freccia del tempo. Nella mia testa, con le ali di pavone, Roberto Calasso, sta annunciando altrove i libri che sta pensando, leggendo, e scrivendo. Bisogna tenere i libri lontani dai dolori.