Tra riferimenti gotici e iconografia, è l’autrice della copertina di Febbre di Jonathan Bazzi. «I miei personaggi sono esseri stranianti che troneggiano sul loro palcoscenico: la superficie piatta del foglio»

Elisa Seitzinger è la sacerdotessa dell’illustrazione italiana. Con il suo mondo visivo popolato da creature fantastiche, riferimenti gotici e una simbologia sempre presente, l’artista piemontese è diventata un punto di riferimento imprescindibile e riconoscibile nel panorama artistico contemporaneo.

 

La grande abilità di Elisa è stata piegare le esigenze professionali dei suoi committenti al suo stile così personale. E allora non solo Medioevo e bestiari e tarocchi, ma nella sua produzione troviamo illustrazioni per giornali, copertine di libri, packaging, immagini coordinate di aziende e fiere, applicazioni nel mondo della moda.

 

È riuscita a fare della sua indole artistica un valore aggiunto, donando ai suoi lavori originalità, esclusività e riconoscibilità.

 

La prima volta che ho chiesto a Elisa un’illustrazione per L’Espresso è stato nel 2019 in occasione dei 25 anni dalla morte di Kurt Cobain e - in definitiva - del movimento grunge. Seguivo già da anni il suo percorso professionale ed ero molto curioso di metterla alla prova su un argomento che non sembrava essere nelle sue corde. E invece…

 

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Come è andata con Kurt Cobain? Se non ricordo male, siamo stati entrambi fortunati, visto che il rocker era anche uno dei tuoi personaggi musicali preferiti.

Fin da ragazzina ho sempre avuto una predilezione per i rockers maledetti. Al liceo avevo fatto il mio altarino pagano: il cimitero del club dei 27, in un vaso a ciotola, una collina in muschio con le lapidi dei miei idoli in Das (immagino la gioia di mia mamma). Insomma una vera opera di design scandinavo!

Kurt aveva un posto speciale nel mio cuore, disegnato sulla prima pagina della Smemo con il testo di Smell like teen spirits (pezzo che lui odiava abbastanza tra l’altro). Il video di Heart shaped box penso che abbia segnato anche il mio futuro immaginario. All’epoca Kurt e simili erano il mio ideale estetico di ragazzo. Insomma credo che la musica grunge, insieme all’hard rock e al punk west coast, sia stata la vera colonna sonora degli anni ’90 alternativi, di una provincia che si annoiava a morte e che si esprimeva  “pogando” anche nelle feste private, bevendo crema al whisky e vodka alla pesca. Disagio adolescenziale puro e poesia. E comunque in me c’è sempre stata la tendenza a santificare personaggi che sono tutt’altro che santi. 

 

Facciamo un passo indietro. Qual è stata la tua formazione? Avevi da sempre in mente di diventare illustratrice?

Assolutamente no. Neanche dopo il diploma di laurea in illustrazione a dire il vero. Una cosa che da dopo il liceo ho sempre avuto chiaro in mente, a tratti anche prima, era che volevo occuparmi di arte visiva. Ma poteva anche trattarsi di curatela museale, di ricerca storica, di scultura, di pittura, d’interior design, di restauro, di cinema d’animazione. Il mio amore per l’arte va aldilà del suo ambito e mi ha portato a laurearmi sia in Storia dell’Arte che allo IED, a frequentare un semestre l’Accademia negli States, a fare un master e uno stage (non pagato) per una casa di produzione di cinema di animazione, a strappare i biglietti al museo di arte contemporanea di Atlanta, a fare corsi di specializzazione alla Central Saint Martins a Londra senza mai rinunciare all’aspetto ludico dei vent’anni. La scelta di intraprendere un percorso autoriale con l’illustrazione è avvenuto tardi, anche se l’illustrazione è sempre stata il mio mestiere, ed è stato come scegliere a tavolino di esprimermi con il lessico e la semantica che prediligo a livello d’inclinazione personale.

 

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E il tuo immaginario visivo da dove nasce?

Immaginario: parliamo esattamente di questo. Sono l’opposto di un pittore impressionista o semplicemente di uno di quei disegnatori che hanno sempre lo sketchbook o l’iPad Pro con sé. La mimesi del reale in ogni sua forma non m’interessa, o meglio m’interessa solo attraverso gli occhi di un obiettivo fotografico, non di una matita. Io sono un animale da studio, prima di affrontare un progetto leggo, attingo a piene mani da iconografie di altre epoche storiche, reinterpreto le nostre radici culturali sacre, profane, auliche o popolari in composizioni ieratiche e con colori pop. I miei personaggi, protagonisti assoluti delle mie illustrazioni, sono caratterizzati dai loro dettagli anatomici, dalle loro vesti o dai loro accessori se sono nudi, dal loro apparato simbolico, esseri stranianti che troneggiano sul loro palcoscenico, la superficie piatta del foglio. Naturalmente anche l’esperienza continua aldilà dei momenti “produttivi” è di vitale importanza per alimentare il mio immaginario. Senza l’emozione di visitare giardini iniziatici, sacri monti, collezioni museali da wunderkammer, dimore artistiche e cimiteri monumentali, vedere certi film anni ’70 o andare a un buon concerto mi chiedo se la scintilla che accende il mio immaginario scoccherebbe comunque…

 

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Dall’esterno, da semplice osservatore, se dovessi individuare un momento in cui la tua produzione è esplosa, è stato con la copertina del libro “Febbre” di Jonathan Bazzi (Fandango libri). È una sensazione sbagliata?

E pensa come è esploso meritatamente e giustamente Jonathan. Non so se sia stata una vera esplosione. In Italia di illustratori “giovani” e viventi un po’ famosi ce ne saranno due o tre, meno di cinque di sicuro. Siamo le cenerentole dell’arte. La gente non capisce neanche bene il nostro mestiere, se chiedo a mio fratello di nominarmi tre illustratori italiani, non so se ci arriva. Comunque diciamo che da Febbre in avanti ho infilato fortuitamente una serie di collaborazioni molto interessanti, ma non sono sicura ci sia una correlazione stretta con Febbre. Forse sì. La storia della copertina di Jonathan è lunga. Intanto, ci tengo sempre a dirlo, l’immagine è nata nella seconda metà del Quattrocento, è quella che ho disegnato è una mia personale reinterpretazione del dettaglio della mano della Santa Lucia di Francesco del Cossa. È stato uno dei primi disegni firmati Elisa Seitzinger, in origine è stato pensato come un amuleto, prima di essere una cover infatti, è stata una spilla smaltata. Quel disegno lo scelse Jonathan, io lessi “Febbre” una settimana prima dell’uscita nelle librerie e capii immediatamente perché aveva voluto proprio quell’immagine in copertina. L’illustrazione rientra nell’ambito delle arti applicate e di conseguenza il successo di un progetto deriva dall’operare le scelte giuste in ambito comunicativo. 

 

Le tue immagini illustrano L’Espresso e altri magazine, ma anche playlist di Spotify, dischi, stoffe e packaging. Il tuo approccio progettuale è sempre lo stesso o lo modifichi a seconda del settore in cui ti muovi?

Sì, ci sono delle accortezze estetiche fondamentali, a partire dalla composizione che deve valorizzare e adattarsi a formati diversi, l’impatto visivo che deve essere studiato per lo scopo del prodotto finale. Un manifesto non può essere progettato come il pattern di un tessuto. Inutile iniziare un progetto se prima non si sanno le finalità, le declinazioni, i formati, le dimensioni. L’approccio contenutistico e la tecnica con cui realizzo le mie opere invece non cambia molto, può essere più o meno “decorativo”, ma gli ingredienti simbolici che mi caratterizzano non mancano mai perché sono un’emanazione del mio immaginario.

 

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Da un punto di vista tecnico, tu lavori manualmente. Che rapporto hai con il digitale?

Nel mio mondo ideale non c’è bisogno di tecnologia, saremmo tutti dei semidei con dei super poteri. Il digitale è importante perché i superpoteri non li abbiamo e la velocità con cui il digitale ci permette di risolvere un problema è fondamentale nel nostro lavoro. Indi il compromesso per me: disegno a mano e coloro in digitale. Non ho nulla contro il digitale: usare magistralmente le tecniche digitali è difficile tanto quanto usare magistralmente quelle manuali (io non ho il tipo di intelligenza giusta per farlo), e soprattutto se guardiamo la questione dal punto di vista del fine che giustifica il mezzo è un bel vantaggio che il digitale esista. Premesso questo, bisognerebbe chiedere a quelli che lavorano esclusivamente in digitale se non si sentono troppo manovrati da un’intelligenza artificiale che ti propone l’uso di mille pennelli preconfezionati di grande effetto, la linea vettoriale perfetta, che alla fine però non saranno mai come stenderesti tu con le tue mani il colore o le linee (nel mio caso), con esiti meno perfetti, ma forse più interessanti e che trascendono le tendenze del momento. Un bravo illustratore è colui che ha un’enorme padronanza della composizione grafica, una grande personalità nella stilizzazione dei soggetti o nell’interpretazione delle atmosfere, un gusto impeccabile e originale, dei contenuti molto interessanti. Chi ci riesce ha vinto aldilà della tecnica che usa. 

 

Hai all’attivo anche mostre personali. Quanto è importante per te la dimensione artistica?

La dimensione artistica è il motore della mia scelta professionale e in me, che sono scissa per tantissimi altri aspetti della vita, non vedo invece una separazione abissale tra i lavori commerciali e i progetti personali. Ovvio che i progetti personali sono più liberi e strutturati a livello di ricerca e non si ha mai abbastanza tempo di intraprenderli e portarli avanti, ma anche nei lavori commerciali ho sempre trovato clienti e direttori creativi rispettosi del mio stile e del mio linguaggio. Come obiettivo del 2022 ho in mente di fare una retrospettiva del mio lavoro partendo dalla progettazione al prodotto finito e dividendola per le tematiche che mi stanno più a cuore e che ricorrono costantemente nel mio lavoro (il femminile, gli arcani, eros e thanatos, gesti e simboli, bestiari e botanica, ecc.). Presto farò dei sopralluoghi per trovare una location suggestiva che renda la visita un’esperienza emotivamente immersiva. Le ultime due piccolissime mostre personali che ho fatto (questa che sto preparando sarà più grande) erano una in una chiesa barocca sconsacrata (maggio 2021) e l’altra sulle porte dell’antiche darsene in legno di un piccolo lago del Trentino (settembre 2020).

 

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Il Salone del Libro di Torino ha annunciato la nuova edizione 2021 e presentato l’immagine ufficiale che tu hai realizzato. Che lavoro è stato? E quanto hai sentito l’ulteriore responsabilità di disegnare per il tuo territorio?

Per il Salone Internazionale del Libro mi sono stati commissionati due visual con due temi, uno per l’edizione natalizia 2020 online e nelle librerie, l’altro per l’edizione ufficiale e fieristica che si terrà a ottobre 2021. Per il primo, tema Vita Nova (legato alla prima opera di Dante), ho rappresentato una sorta di Beatrice che emerge dalle acque scure della pandemia, e per il secondo Vita Supernova, un tema molto libero che guarda al futuro, ho rappresentato un’Artemide a cavallo di un astro circondata da stelle e libri volanti. Non ho sentito un’ulteriore responsabilità rispetto ad altre commesse, ma piuttosto è stato un piacere e un onore lavorare per l’evento culturale più importante della mia città. Per realizzarlo ho evitato ci fossero dei rimandi troppo espliciti con Torino perché il Salone è Internazionale.