Mahmoud Omid ha 31 anni, vive a Kabul. Fino all’anno scorso era un interprete delle truppe statunitensi in Afghanistan. Quando gli chiedi di descriversi dice: Sono nato e cresciuto in un paese in guerra, e probabilmente morirò in un paese in guerra.
In casa di Mahmoud non c’è elettricità, arriva solo la sera e non sempre.
Vive nella parte settentrionale di Kabul, in una antica casa della sua famiglia. Sua madre non indossa il velo, ha lunghi capelli castani, stretti in una coda intorno al viso lungo, marcato dalle rughe. Era una dipendente statale prima che il regime dei talebani le impedisse di continuare a lavorare negli anni Novanta.
«Viviamo al buio – dice – come è buio il nostro futuro.»
Mahmoud Omid ha lavorato per tre anni con le truppe americane, era il ponte tra una cultura lontana e la cultura afgana, un mediatore più che un semplice traduttore. La sua base di lavoro era nel New Kabul Compound nella capitale, ma ha preso parte ad alcune missioni operative in altre province come Kandahar e Helmand.
«Addestravo, consigliavo e assistevo le forze di sicurezza afghane mediando con le truppe americane» dice Mahmoud «mi definirei un consigliere culturale perché, vedi, la maggior parte degli americani quando sono venuti in Afghanistan non sapevano nulla della nostra cultura, non sapevano come salutare una donna senza porgere la mano, e noi gli insegnavamo che si porta la mano al petto. Non sapevano muoversi in una tradizione che hanno dimostrato di non saper rispettare.».
«Cosa hai imparato dalla convivenza di culture così diverse?» «Dagli americani ho imparato cosa sia la libertà, ho imparato a credere nel valore di questa parola. Ora non ci credo più».
Operazione Enduring Freedom era il nome utilizzato dal governo statunitense per designare le operazioni militari avviate dopo gli attentati dell’11 settembre.
Libertà duratura.
Quando si è unito all’esercito americano come interprete, Mahmoud desiderava contribuire alla libertà della sua gente, portare un cambiamento al suo Paese. «Invece sono passati vent’anni, i talebani si stanno riprendendo il Paese, l’Isis ancora minaccia il Paese, e i diritti sono di una ridotta elite. Sono arrivati promettendo di vincere la guerra al terrore e portare in Afghanistan una libertà duratura, oggi possiamo dichiararlo un totale fallimento».
L’ultima missione di Mahmoud Omid con le truppe statunitensi, la divisione Kabul1, è stata un anno fa. Mostra i suoi amici, soldati americani con cui ha lavorato, tornati a casa in Okhlaoma, in North Carolina.
Mahmoud ricorda bene il giorno in cui le truppe con cui lavorava gli hanno detto che se ne sarebbero andati. Stavano mangiando all’interno della base, dalla tv accesa la cronaca dei colloqui tra americani e talebani in corso a Doha, in Qatar. Il capitano della squadra gli ha detto: “Amico presto ce ne andremo, devi stare attento al tuo futuro.”
Mahmoud ricorda di aver continuato per giorni ad ascoltare i tg scettico. La pace coi talebani per fermare la guerra?
«Trump aveva fretta di firmare gli accordi e la fretta ha rafforzato i talebani, col risultato che oggi in Afghanistan c’è una guerra piu’ brutale delle altre. Quando è entrato in carica Biden e ha confermato il ritiro senza condizioni i soldati americani alla base mi hanno detto: Fratello, è ora che lasci il paese».
Da quel momento è stato un lento smobilitare culminato nell’abbandono della grande base di Bagram all’inizio dello scorso luglio, senza avvisare nessuno, senza passare le consegne alle forze di sicurezza afgane. Entrati senza chiedere permesso vent’anni fa e andati via, come ladri.
Alla fine del 2020 Mahmoud ha richiesto il visto SIV, il visto speciale di immigrazione degli Stati Uniti ma quest’anno, il 29 marzo, ha ricevuto una lettera di diniego dall’ambasciata americana.
Domanda rigettata.
Ha fatto appello, dopo aver ricevuto numerose lettere di raccomandazione dai soldati statunitensi che hanno lavorato con lui. L’appello è in fase di revisione ma Mahmoud è certo che sarà di nuovo rigettato.
«Sono andato all’ambasciata americana a Kabul, come gli altri interpreti. Ci sottopongono al questionario con la macchina della verità, il poligrafo, collegano la mano destra alla macchina, controllano il battito cardiaco. Sei nervoso, mi hanno detto, il tuo battito è irregolare. Sono nervoso? Certo che sono nervoso. Vivo a Kabul, da quando sono nato non ho vissuto altro che guerra. I talebani hanno giustiziato parte della mia famiglia nel nostro villaggio di origine, mia madre è un’attivista e rischia la vita, io sono un’ex interprete degli americani e rischio la vita».
Mahmoud aveva superato tre volte la prova del poligrafo all’ambasciata americana, l’ultima, invece, è andata male.
«Mi hanno rifiutato perché sono troppo nervoso e il mio battito è irregolare, così hanno scritto, e questo secondo i loro standard fa di me una potenziale minaccia alla sicurezza nazionale americana».
Sono già numerosi gli interpreti ed ex collaboratori delle truppe americane che sono stati uccisi nelle ultime settimane, un amico di Mahmoud è stato catturato, torturato e decapitato dai talebani dieci giorni fa: «per loro non conta se hai lavorato per i paesi Nato e le truppe statunitensi un’ora, un giorno o dieci anni, se lo hai fatto sei sulla lista nera degli infedeli che vanno eliminati».
Mahmoud non è solo, è uno dei circa 20.000 afgani, insieme a più di 50.000 dei loro familiari più stretti, che hanno chiesto di trasferirsi negli Stati Uniti attraverso il programma SIV, creato dal Congresso come un modo rapido per portare in sicurezza interpreti e appaltatori afgani negli Stati Uniti, ma i severi requisiti di controllo hanno intrappolato migliaia di persone per anni in un limbo burocratico che li espone al rischio di ritorsioni, e alla morte.
Oggi Mahmoud vive da prigioniero, resta sempre in casa, non esce, non vede un amico, non riceve nessuno e non si fida di nessuno.
La sua vita è lunga tre decenni, la guerra in Afghanistan quaranta, praticamente ininterrotti.
I suoi ricordi, dice, sono solo legati al conflitto. Le libertà di cui sua madre è stata privata, i familiari uccisi a Baghlam per aver combattuto i talebani, nel mezzo una generazione di giovani cresciuti pensando che negli ultimi venti anni le cose sarebbero cambiate. Ma sono cambiate solo per un èlite, mentre il resto del paese restava fermo dov’era, progetti di pace lasciati a metà, con una cosa sola destinata a durare in questo paese: la guerra.
«Noi siamo i lasciati indietro. Ognuno di noi, dimenticato e rigettato è un tradimento. Hanno usato la nostra tenacia, la nostra conoscenza, la nostra fiducia e ci hanno abbandonato»
Nel 2019 Mahmoud ha partecipato a una missione delicata in una delle 11 divisioni di Kabul.
Le forze statunitensi e quelle speciali afghane dovevano incontrare un gruppo di anziani di un villaggio nella provincia di Nangarhar, est del paese.
Quando uno degli anziani del distretto si è rifiutato di stringergli la mano chiamandolo ‘infedele’ perché lavorava con gli americani, le truppe gli hanno chiesto di trovare il modo di ottenere il suo numero di telefono per metterlo sotto controllo.
«Mi ha detto: non ti stringo la mano, se lo facessi dovrei lavarla migliaia di volte» ricorda Mahmoud, che ha ottenuto il suo numero consegnandolo agli agenti della CIA che lavoravano nella base.
L’uomo era un membro della Rete Haqqani, gruppo alleato di al Qaeda e responsabile di alcuni degli attacchi terroristici più gravi compiuti in Afghanistan negli ultimi anni.
Dalle conversazioni intercettate sul suo telefono con i gruppi in Pakistan, gli agenti americani hanno trovato tracce di un piano per attaccare i comandanti delle brigate delle forze speciali afghane e di quelle statunitensi.
«Il giorno che lo hanno arrestato gli americani mi hanno abbracciato, mi hanno baciato, mi hanno detto: “Da ora in poi tu non sei solo il nostro interprete, sei nostro fratello. Perché hai salvato la vita di tutta la squadra” e mi hanno detto che sarei stato loro fratello qui e negli Stati Uniti, non solo un fratello ma il fratello di tutta la squadra. E mi hanno dato una medaglia, sai?»
Mahmoud la tira fuori dal cassetto, lucida, insieme alla targa, omaggio delle truppe statunitensi.
Legge a voce alta:
“Il dipartimento dell’esercito e il certificato dei risultati conseguito a Mahmoud Omid. Un riconoscimento per il tuo comportamento eccezionale in supporto alla squadra 2211. Il tuo supporto è stato cruciale e ha giocato un ruolo importante per il successo della missione dei nostri consiglieri, più di un semplice interprete, ci hai aiutato a capire e a rimanere vigili e vivi. Non possiamo ringraziarti abbastanza per il tuo tempo e cosa più importante per la tua amicizia.”
Amicizia, amicizia, ripete.
“Cosa significa la parola amicizia per te oggi, Mahmoud?”
«Non lo so più. So solo che ho fatto tanto per loro. E loro non hanno fatto niente per me».
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