Inchieste
agosto, 2021

Covid-19, la giustizia non arriverà dai tribunali

Da tutta Italia sono piovuti migliaia di esposti per il dilagare della pandemia e il modo in cui è stata gestita. Ma solo una minima parte arriverà a sentenza. E lo scudo vaccinale rischia di proteggere anche chi ha sottovalutato i rischi

Più di 128 mila vittime accertate fino ad oggi. E migliaia di denunce di familiari disperati, che invocano verità e giustizia con esposti individuali o collettivi. La pandemia da Covid-19 ha listato a lutto anche i tribunali. In tutta Italia i magistrati delle procure hanno aperto indagini approfondite, con mesi di accertamenti, per verificare pesanti ipotesi di reato. Ma di processi penali, probabilmente, se ne faranno pochi. Solo in casi di estrema gravità. E con scarse prospettive di ottenere condanne definitive in nome del popolo italiano.


Nella giustizia penale i bilanci si fanno alla fine, dopo tre gradi di giudizio, e ogni procedimento fa storia a sé. Ma i primi provvedimenti di chiusura delle istruttorie sull’emergenza coronavirus preannunciano una tendenza di portata generale, che preoccupa i legali, i comitati e le associazioni dei familiari delle vittime: quasi ovunque fioccano le richieste di archiviazione.

 

A Cagliari a fine luglio, prima dello stop feriale che scatta per legge in agosto, la Procura ha chiesto di prosciogliere tutti gli indagati per la diffusione del contagio collegata alla controversa riapertura delle discoteche, decisa dalla Regione Sardegna nell’irresponsabile estate del 2020, tra la prima e la seconda ondata. L’accusa di epidemia colposa, secondo i quattro pubblici ministeri specializzati in reati sanitari, non è sostenibile in tribunale.

 

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A Imperia, il giorno prima, i magistrati della stessa pubblica accusa hanno chiesto di far cadere le denunce presentate dai parenti degli anziani morti a decine negli ospizi. A Lodi, una delle province più colpite, dove nel febbraio 2020 fu scoperto il primo contagiato italiano, il procuratore capo, Domenico Chiaro, ha spiegato pubblicamente, il 20 luglio scorso, le ragioni tecniche e normative che lo portano a escludere la punibilità di tutti gli accusati per una delle vicende più drammatiche: 77 vittime in una residenza per anziani a Mediglia. Molte altre istanze di archiviazione sono state presentate nei mesi scorsi dalla Val d’Aosta all’Emilia, dalla Sicilia al Lazio. Le richieste di rinvio a giudizio per i reati-base di epidemia e omicidio colposo plurimo, invece, al momento sono pochissime e devono ancora superare il primo esame dei giudici delle indagini.


L’enorme quantità di denunce e quindi di indagini penali, ma anche la prevedibile scarsità di futuri risultati processuali, erano state preannunciate già nel gennaio scorso, all’apertura dell’anno giudiziario, dal procuratore generale di Roma. L’alto magistrato, Antonio Mura, ha spiegato che solo nel Lazio, nel 2020, sono arrivati ben 1.500 esposti collegati al Covid-19, per altro «di segno opposto»: circa mille lamentavano l’insufficienza delle misure varate per fermare il virus, mentre altri 500, al contrario, «contestavano la legittimità delle restrizioni, con tesi negazioniste».

 

Quasi tutte le accuse al governo centrale o a singoli ministri sono state archiviate in blocco, con un unico provvedimento, per manifesta infondatezza. Per la restante massa di denunce, lo stesso procuratore ha avvertito che il reato di epidemia colposa «presenta evidenti difficoltà di accertamento», per cui è probabile che i giudici si concentrino su «addebiti di omicidio colposo per singoli pazienti, sulla base della ricostruzione di condotte specifiche». Casi individuali, insomma, senza pretese di fare processi alle classi dirigenti della sanità nazionale o regionale.


Questo monito sui limiti della giustizia penale riguardava la prima ondata. Oggi le indagini si scontrano con una barriera legale ancora più forte: il cosiddetto scudo penale. Nato per difendere medici e infermieri impegnati nella campagna vaccinale, è stato allargato dal Parlamento a tutta l’emergenza.

 

Nell’aprile scorso, in particolare, il governo Draghi ha approvato un decreto legge che ha escluso la punibilità per chi somministra vaccini regolarmente «autorizzati» in modo «conforme alle indicazioni». Quando è stato convertito in legge, a fine maggio, lo scudo vaccinale è diventato un salvagente generale, previsto dal nuovo articolo 3 bis: i reati di omicidio e lesioni colpose «commessi nell’esercizio di una professione sanitaria» e «che trovano causa nella situazione di emergenza», restano punibili «solo nei casi di colpa grave». Che va sempre esclusa, con obbligo per i giudici di assolvere, di fronte a una serie di scusanti, come la «limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da Sars- Cov-2 e sulle terapie appropriate». Oppure la «scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare». O «il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato». Una legge salva-tutti, insomma, approvata senza dibattiti e polemiche politiche, mentre le procure indagavano su amministrazioni di ogni colore, dalla Sicilia alla Puglia, dall’Emilia al Veneto devastato dalla seconda ondata.


Magistrati, avvocati e giuristi si dividono nei giudizi su questo scudo penale, che per alcuni è sacrosanto, per altri esagerato, ma tutti concordano sull’effetto pratico: per la mala gestione della pandemia si prevedono pochi processi penali. I legali di parte civile continuano a battersi contro le archiviazioni. Ma avvertono i familiari delle vittime che ora la strada è tutta in salita.


A Milano, nella procura più importante della regione più colpita, dieci pubblici ministeri lavorano da più di un anno sul disastro sanitario della Lombardia. A guidarli è un procuratore aggiunto, Tiziana Siciliano, che conferma: «Abbiamo moltissimi procedimenti, solo in settembre cominceremo a tirare le somme, ma una cosa va detta subito: non vogliamo fare processi inutili. Di fronte all’enormità di questa pandemia, la giustizia penale non è la soluzione: come magistrati abbiamo il dovere di non illudere i familiari delle vittime».


La magistrata, come i pm di Roma o di Lodi, precisa che lo scudo è un problema per l’accusa, ma non è certo l’unico: «In una situazione mai vista prima, con un virus sconosciuto alla scienza, norme incerte, mascherine introvabili, attrezzature inesistenti o inadeguate, è veramente difficile contestare una colpa. Per noi è un problema dimostrare anche solo il nesso di causa-effetto tra il Covid-19 e un decesso: durante la prima ondata non si facevano nemmeno le autopsie».

 

Anche a Milano, dunque, gli stessi pubblici ministeri sono orientati a chiedere il processo solo nei casi più gravi, che in Lombardia come in molte altre regioni riguardano soprattutto il dilagare dei contagi negli ospizi. Ma sempre e soltanto per fatti circostanziati. Per il resto, è prevedibile che si applicheranno solo le contravvenzioni alle norme sulla salute e sicurezza del lavoro: reati minori, con termini di prescrizione brevissimi.


Anche a Bergamo, la provincia più colpita nella prima ondata, secondo le prime indiscrezioni la procura non sembra intenzionata a imbastire processi per i cosiddetti «atti politici o di alta amministrazione», che legioni di giuristi considerano «insindacabili», come la decisione di imporre o meno una zona rossa. Più probabile, anche qui, un giudizio penale per fatti particolari e circoscritti, come la scelta di riaprire l’ospedale di di Alzano Lombardo dopo e nonostante i primi contagi, che trasformò un centro di cura in un focolaio catastrofico.


L’avvocato e giurista Luca Santa Maria, che difende i familiari delle vittime del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio simbolo di Milano, ha firmato uno dei pochi esposti che potrebbero sopravvivere allo scudo penale. E il suo commento lascia presagire come si giocheranno i futuri processi: «Lo scudo riguarda solo due reati, lesioni e omicidio colposo. La legge non parla di epidemia colposa o disastro sanitario, che sono reati contro la salute pubblica, che mettono in pericolo una serie indeterminata di persone. Anche sul piano soggettivo, lo scudo è razionale se si applica ai medici, agli infermieri, al personale strettamente sanitario che ha rischiato la vita per curare gli altri. Ma non dovrebbe coprire figure diverse, come l’imprenditore della sanità, il datore di lavoro, il padrone dell’ospedale privato, il dirigente di nomina politica. So bene che nei processi può succedere di tutto. E che le norme favorevoli agli imputati, a differenza di quelle sfavorevoli, si possono interpretare in modo estensivo. Ma di fronte alla gravità dei fatti e al numero spaventoso di vittime penso che sia un errore allargare l’applicazione dello scudo, garantendo l’impunità oltre i confini testuali di una norma dichiaratamente eccezionale».


Gli stessi avvocati delle vittime, per altro, chiariscono che le indagini delle procure, comunque vadano a finire, non sono inutili. Lo scudo penale, infatti, non vale nei processi civili. Dove il problema è un altro: le parti devono pagarsi tutte le spese di tasca propria, compresi gli avvocati e le perizie decisive. Se si muove una procura, invece, paga lo Stato. E in una parallela causa civile anche il più povero può usare testimonianze, consulenze tecniche, documenti sequestrati: prove inarrivabili per il semplice cittadino. Di qui la profezia di molti addetti ai lavori: tranne i casi estremi, la stragrande maggioranza dei processi per il Covid-19 si farà nelle aule (e con i tempi lentissimi) della giustizia civile. Che dopo tante riforme penali di dubbia urgenza, come la prescrizione dei reati modificata per tre volte da tre governi, resta la grande malata cronica del sistema giudiziario italiano.

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