Nell’estate 1986 l’emittente offre agli ascoltatori la possibilità di registrare messaggi senza filtro. Risultato: bestemmie, razzismo nord sud, slogan fascisti. Trent’anni prima dell’arrivo dei social

Negli Ottanta, quando tutto cambiò, c’è un anno che potrebbe simbolicamente rappresentare il passaggio da un’Italia ad un’altra: il 1986. Ed anche se, come ci spiegherebbero gli storici, il mutamento andrebbe diacronicamente cercato sul tempo lungo, è proprio nel 1986 che alcuni indizi annunciano il tramonto di un’epoca.

Siamo ormai lontani dal miracolo economico, da tempo è in crisi la repubblica dei partiti, sfumata è l’onda delle passioni politiche e trionfa l’individualismo narcisista e consumista alimentato dalla pubblicità che dalle tv commerciali si riversa sul Paese. Pure le ultime icone nazionalpopolari sono svanite: a Pertini, il loquace e seduttivo presidente partigiano, è succeduto il silente Cossiga, i campioni dell’82 sono stati eliminati dalla Francia ai mondiali messicani. Ma all’inizio dell’anno Alessandro Natta, segretario del partito meno incline alla spettacolarizzazione politica, era comparso tra lo stupore dei militanti sul divano di “Buonasera Raffaella”, mentre Pippo Baudo, proclamato dal settimanale Sorrisi e Canzoni il personaggio più amato dagli italiani, proprio alla fine del 1986 veniva travolto da una polemica con il presidente della Rai Enrico Manca.

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Ormai l’Italia è già diventata la televisione, nel senso che vi si specchia e ne è specchiata, un cortocircuito sempre più intenso che taglia fuori le vecchie parrocchie come le vecchie sezioni. Ma se la politica si fa spettacolo tv, la società non sembra assecondare queste trasformazioni: lustrini e paillettes poco si conciliano nella pancia dello stivale con un sentire che si carica di malumori, rabbia, malanimo.

Un sommovimento che durerà molti anni prima di provocare il terremoto del biennio ‘92-’94, ma che nell’estate del 1986, appunto, si appalesa con una prima scossa tellurica che solo il sismografo dei media rileva. Perché tra Natta sul divano della Carrà e il baudismo che tramonta è la radio che s’incarica di fornirci un ulteriore indizio della trasformazione in atto. Lo fa con un’emittente, Radio Radicale, che in crisi per l’aumento dei costi denuncia il rischio di chiusura e per spingere il governo ad intervenire vara una singolare forma di protesta: sospende i programmi e al loro posto una trentina di segreterie telefoniche dal 10 luglio accolgono i messaggi di solidarietà degli ascoltatori. Aperti i microfoni, i messaggi, al massimo di un minuto, cominciano ad arrivare. Sono messaggi che esprimono perlopiù vicinanza alla causa, anche se non manca il dileggio. Questo per alcuni giorni, fino a quando i redattori non decidono di rendere pubbliche le telefonate mandandole in onda h24. L’effetto della scelta è dirompente: la questione della sopravvivenza della radio passa in secondo piano, derubricata da una valanga di registrazioni che cresce in maniera esponenziale e in cui gli italiani danno voce agli istinti più indicibili. Sono messaggi che di radicale possiedono solo le incredibili modalità espressive, messaggi d’amore, di tifo sportivo, invettive e insulti di vario genere, inni al fascismo o perfino al nazismo, ingiurie contro negri, ebrei, froci, meridionali terroni, nordisti polentoni. Poi c’è chi canta, chi registra una filastrocca, chi bestemmia, chi finge un orgasmo, chi manda affanculo, chi parla a capocchia, chi invoca i forni crematori, chi protesta per quelle stesse telefonate, chi si fa pubblicità, chi soffre per un amore perduto e chi s’offre per un amore mercenario.

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Anche se i temi più frequentati alla fine sono quasi sempre quelli: Nord contro Sud, metallari contro paninari, comunisti contro fascisti, tifosi contro tifosi. La bestemmia, in particolare, sembra esercitare sugli anonimi italiani un’irresistibile fascino: urlata al telefono, accompagnata con proclami a Benito o ad Adolfo, scagliata contro i milanesi o i meridionali. In questa sarabanda pecoreccia dove la pernacchia è il gesto più civile ci sono punte di sublime creatività, come quando una signora napoletana, alludendo agli scioperi della fame di Pannella, conia un distico memorabile: ‘nuie a fame a facimme senza o sciopero, la nostra è na fame radicale’.

Dunque nelle ultime settimane di luglio e nella prima metà di agosto su Radio Radicale andava in onda una, fino ad allora inedita, apoteosi della parolaccia e delle offese: ma più che di una rivoluzione (la presa di parola degli esclusi: c’era chi la teorizzava) si trattava piuttosto della rivelazione che accanto all’Italia oleografica dei santi, poeti, navigatori c’era un Paese anonimo di razzisti e bestemmiatori del tutto ignoto ai retori della nazione.

Pure il mito del latin lover veniva travolto dal fiume delle sodomizzazioni promesse via telefono: «Quelli del Nord vogliono metterlo in culo ai meridionali, i quali minacciano la stessa sorte ai nordisti. Ma non eravamo un popolo di amanti latini?» c’era chi coerentemente si chiedeva in una delle chiamate. Ad un certo punto, dunque, l’esperimento politico sfuggiva completamente di mano ai suoi promotori per diventare microfono aperto sulle viscere di un Paese che si dimostrava più brutto e cattivo di come lo si pensasse. Certo, a giocare a favore c’era un clamoroso effetto diretta, la goliardia risorta dopo il tramonto delle ideologie, l’esibizionismo del selfie ante litteram con i media allora disponibili, c’era il piacere della trasgressione oscena, tanto più libera quanto anonima, il gioco demenziale del ragazzino che registra per la prima volta la sua voce. Il tutto legato dal narcisismo di masse di individui in fuga dalla società, come andava raccontando Cristopher Lasch, e dal filo rosso di un’intolleranza indistinta che andava da chi faceva il verso al Duce: «La parola d’ordine è una, e una soltanto, annate affanculo!», a chi enfaticamente invocava «tutti in galera!».

Visto ex post negli anni successivi si parlò di magma ribollente e nascosto emerso all’improvviso tra la sorpresa dei più, espressione della peristalsi di un Paese dove già s’annunciavano le leghe padane e la mutazione individualista assecondata dalle tv berlusconiane, si disse di uno straordinario esperimento socioantropologico e via analizzando; visto con gli occhi dell’oggi, più di trent’anni dopo, fa molta impressione piuttosto l’assonanza con i linguaggi social, l’hate speech, l’odio in rete, la gratuita violenza verbale del web. Colpisce come affiorino proprio in quel frangente i nuclei di quegli universi frammentati che nei decenni successivi avrebbero dato vita alle tribù del calcio, al sessismo machista, alle leghe padane, all’antipolitica dei vaffa, ai fascismi ritornanti, ai gruppi emarginati delle periferie. Ma lo si sarebbe capito dopo.

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Paolo Vigevano, direttore dell’emittente, affermava che quanto accaduto era un evento unico e senza precedenti, annunciando di avere inviato al sociologo Ferrarotti uno scatolone pieno di materiale registrato per farci sopra una ricerca sociologica. Che in realtà non arrivò mai. In ogni caso tra luglio e agosto del 1986 era andato in onda via radio il più grande esperimento di accesso libero ai media mai verificatosi prima, privo di qualsiasi filtro o censura, capace di calamitare un esercito di cittadini di fronte allo spettacolo del microfono dato alla gente, format degenerato di quello nato nella stagione delle radio libere.

La gente, ecco il punto: a fare il suo ingresso sulla scena pubblica, in quella circostanza forse per la prima volta, era proprio un soggetto privo di identità economica, sociale o di classe che presto sarebbe assurto a protagonista della grande trasformazione politico mediatica italiana. Prima che sul video con Santoro, “la gente” si materializzava in modulazione di frequenza, dando vita al primo embrione di quel soggetto trasversale che prendeva il posto di concetti come popolo o classe operaia. La kermesse proseguiva fino a quando, alla metà di agosto, l’intervento dei magistrati, che sequestravano le segreterie telefoniche per vilipendio alle istituzioni, apologia del fascismo e istigazione al genocidio, non vi metteva fine.

Un provvedimento che, come scrisse Miriam Mafai, rassicurava solo la nostra coscienza: «Quando scoppia un tombino anche il passante più distratto scopre che sotto la strada scorre una fogna. E puzza. Ma una volta rimesso a posto il tombino perché pensare a cosa c’è sotto?». Così rimesso a posto il tombino avrebbe coperto ancora per moltissimo tempo i cattivi odori che provenivano dal sottosuolo della Penisola. «Ma che Paese è mai questo?» si chiedeva qualche giorno prima della chiusura, avvenuta il 14 agosto, uno dei pionieri italiani della sociologia dei mass media Giovanni Bechelloni: «Questa Italia al microfono esiste davvero? Quanto è consistente? Da che cosa è prodotta? Chi la rappresenta?».

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Si augurava che qualcuno la esplorasse, questa Italia, «prima che sia troppo tardi: prima che questa faccia nascosta della luna si trasformi in un mostro». Non accadde. Ma dopo un paio di mesi il Parlamento votava una legge che concedeva all’emittente la possibilità di accedere alle stesse provvidenze pubbliche previste per i giornali di partito. Radio Radicale era salva.