Sono centinaia di migliaia, discriminati anche per la pandemia. Senza assistenza medica né mascherine. E ora non si fidano delle vaccinazioni (Foto di Gisella Bianchi per L’Espresso)

Un rombo, gli occhi che puntano su e all’improvviso dal cielo cade una nuvola. Avvolge i tetti di lamiere, impregna le strade che si fanno fango, penetra dentro alle narici. Una pioggia di disinfettante si appiccica sulle persone. In Bulgaria i Rom sono centinaia di migliaia, tra il 5 e il 10 per cento della popolazione, ma vivono isolati nella povertà, relegati oltre i confini dei diritti e così durante la pandemia le autorità hanno persino deciso di sanificare il loro ghetto con gli elicotteri, senza distinguere tra oggetti e esseri umani. Una misura voluta per contenere il contagio e che rievoca le immagini dell’ingegneria dello sterminio nazista.

 

«Ogni ricordo ne nasconde un altro, ogni croce un’altra, ogni urlo un urlo precedente», recita un verso di Mariella Mehr, la poetessa di etnia nomade Jenisch, vittima da bambina del programma eugenetico promosso dall’associazione svizzera Pro-Juventute. Violenze e persecuzioni per divorare un popolo considerato non “conforme alla norma”. Gli ultimi tra gli ultimi che oggi il virus sta spingendo ancor più nell’ombra.

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Siamo nell’Unione europea, ma qui il diritto alla salute non esiste. «Qui non entra nemmeno l’ambulanza e si muore anche senza il Covid-19 perché ci è rimasta solo la miseria». Dimitrov ha cinquant’anni e la rabbia che esplode da un corpo contorto dalla fatica. Accanto a lui un bambino nudo sprofonda ad ogni passo tra pile di legno e rifiuti. Alle porte di Sliven, una cittadina con i viali e le aiuole curate resa famosa dalle battaglie degli Haiduts contro i turchi ottomani, basta oltrepassare il tunnel della ferrovia per immergersi nell’inferno. Nel campo di Nadejda vivono segregate oltre 20mila persone.

 

La situazione sanitaria era disastrosa già da prima, con la morte infantile di cinque volte superiore rispetto alla media nazionale, ma ora è catastrofica. Le stratificazioni di baracche e casupole tirate su con quel che si ha rendono il distanziamento impossibile; in tanti hanno perso lavori saltuari senza ricevere alcun ristoro per i lockdown e nel frattempo si sono consumate nuove discriminazioni che hanno reso ancor più fragile la fiducia.

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«Non credo ai dottori e agli ospedali», taglia corto Nadia.  Li ha visti una sola volta, quando l’hanno portata per partorire «messa nella stanza con altre donne Rom perché non ci vogliono con gli altri, non è concesso mescolarci. Dobbiamo stare qui senza farci vedere», chiarisce. Nadia ha poco più di vent’anni e il suo terrore ora sono i vaccini. Dopo quello che ha subìto non crede sia sicuro farselo iniettare e convincerla non è semplice.

 

Hristo Petrov Nilolov, il rappresentante della comunità Rom di Samokov e mediatore per le politiche sanitarie presso il ministero della Sanità bulgaro, ogni giorno attraversa i quartieri del suo popolo parlando di vaccinazione, ma si scontra contro muri di disperazione: «Molti rifiutano. Sono spaventati. Credono che il sistema sanitario li voglia uccidere. Questo è il risultato di politiche senza una strategia per l’integrazione. Hanno puntato il dito contro di noi accusandoci di diffondere le malattie, di essere un vettore di contagio». 

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In un Paese che li ha sempre trattati come cittadini di rango inferiore, la sfiducia è speculare alla propaganda di politici come il leader del Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria, Valeri Simeonov, che li ha definiti «umanoidi selvaggi», mentre il vice primo ministro per l’ordine pubblico e ministro della Difesa Krasimir Karakachanov li bolla come «zingari non socializzati» che, come scrive il New York Times, tanto ricorda la definizione di «zingari asociali» coniata dai regimi degli anni Trenta.

 

«Come si fa a vivere così?», chiede Nadia ora che si sta consumando l’ultimo esempio di una lunga storia di discriminazione. Se ne sta stretta nella sua baracca tra la stufa a legna e le vecchie bambole ormai senza capelli e vestiti.  Anche oggi dal rubinetto non esce acqua per lavarsi e così con le taniche è costretta a inerpicarsi lungo un sentiero tra le lamiere. La figlia di pochi anni la segue poggiando i piedi scalzi tra pietre e rovi. Nadia un tempo faceva le pulizie part-time, un lavoro in nero, ma poi con la pandemia l’hanno rinchiusa dentro al campo e tutto è andato perso. 

 

«La polizia ci ha impedito persino di uscire come se fossimo noi a portare il virus. L’ennesima persecuzione del nostro popolo», racconta Emil Mihailov, sessantenne nato e cresciuto a Fakulteto, un ghetto nella parte ovest della capitale dove sono ammassati in 45mila. Serrati qui con la ciminiera della centrale elettrica che spande fumo e i palazzi del potere di Sofia lontani. Qui le mascherine e i disinfettanti non sono mai arrivati. «Li abbiamo comprati con i soldi spediti dalla comunità Rom nel mondo», sostiene Emil.

 

Jonathan Lee, il portavoce del Centro europeo per i diritti dei Rom (European Roma Rights Centre) la definisce «la tempesta perfetta perché le misure di restrizione per il Covid-19 hanno esacerbato il livello di razzismo istituzionale che era già diffuso: alle consuete violazioni dei diritti umani riservate ai Rom si sono sommate quelle relative all’epidemia. Quando sono stati identificati i primi contagi nella comunità, interi quartieri sono stati messi in quarantena, presidiati dai check point dei militari, hanno persino usato un drone per misurare la temperatura dei residenti e spruzzato disinfettante dal cielo».

 

Lo stigma e la disumanizzazione. «Nessun altro quartiere è stato trattato in questo modo», sottolinea Miglena Mihaylova del movimento Roma Standing Conference- «Non hanno bloccato o “sanificato” con gli elicotteri altre comunità. Hanno introdotto divisioni inutili e dannose suggerendo che noi siamo un pericolo per il resto della società in quanto vettori esclusivi del virus». Il diverso presentato come untore. Gettandolo in una povertà ancora maggiore.

 

La crisi economica ha messo la comunità in una situazione insostenibile, i giovani cercano di emigrare all’estero. Come Vasil che vorrebbe «andare in Italia, a Roma, dai parenti, perché forse lì non ci discriminano e posso lavorare». Ma tra le lamiere più in là irrompe una voce: «Italiana? Borgo Mezzanone, ancora aspetto che mi paghi…». Aasen Plamenov Arvel vive in sei metri quadri insieme alla moglie Ratka, tre figli e la suocera malata. Una casetta di mattoni recuperati, il tetto di amianto e il bagno fuori. Un solo letto e gli altri per terra, ma ha messo la carta da parati con i fiorellini e appeso la foto del matrimonio anche se tutto s’è intriso di muffa. Sogni svaniti come quel lavoro nelle campagne italiane.

 

 Aasen come tanti è partito da qui per raccogliere pomodori a tre euro l’ora. Con il pulmino e un viaggio di ore, da ghetto a ghetto: «Cento euro per dormire insieme agli altri, cibo a parte. E chi ti porta che prende i soldi: 300 euro per il viaggio. Ratka invece è rimasta a casa perché se non sei “disponibile” con il padrone rischi di perdere il posto», racconta. Quel padrone che non ha pagato Aasen per il suo lavoro e alla fine lui è tornato indietro, poi è piombata la pandemia e si è ritrovato chiuso qui, dietro a un muro così alto da oscurarlo dalla vista. Qui dove internet continua a non funzionare e seguire le lezioni a distanza per molti studenti, spesso privi di computer, è stato impossibile.

 

«Mi sento isolato dal resto del mondo solo perché sono Rom», rivela Kevin a dieci anni. Eppure i Rom, in Bulgaria come in altri Paesi europei, «hanno una popolazione demografica più giovane della media, un grande potenziale che i governi nazionali potrebbero utilizzare per la crescita e lo sviluppo delle loro società e dei loro paesi», ragiona Miglena Mihaylova. Invece Kevin e i suoi coetanei si ritrovano tagliati fuori, intrappolati nella miseria.

 

«Già prima era difficile farcela, con il virus sta diventando impossibile», spiega  Alexander, il figlio di Emil, che lavora nella municipalizzata che si occupa di rifiuti. «Io ho studiato, mi sono diplomato ma ci ho messo anni per provare di essere un buon impiegato, molto più tempo dei miei colleghi per farmi dare degli incarichi di fiducia. Tutti erano preoccupati che rubassi qualcosa».

 

E intanto, come ha svelato di recente un’inchiesta della sezione bulgara di Radio Free Europe/Radio Liberty, quando ci sono le elezioni i loro voti vengono estorti in cambio della promessa di un allaccio alla rete elettrica o idrica. A Fakulteta c’è il fornaio, un piccolo supermercato costruito dentro una casetta sbilenca: «Tutto fatto da noi», tengono a precisare con un orgoglio disperato.

 

E ogni tanto appare un portone d’oro, inferiate, leoni e capitelli. Il più imponente, un vero e proprio castello, appartiene alla famiglia di Kiril Kirov detto “Kiro Yaponetza” perché dicono che assomiglia a un giapponese, ma lui non si fa mai vedere. Ha la fama dell’intoccabile e immortale. Hanno provato anche a sparargli in testa, ma si è salvato. È stato arrestato per possesso illegale di armi e riciclaggio ma senza condanne definitive e il traffico di droga rimane solo un sospetto. Ufficialmente possiede un’azienda di costruzioni e qui tra il fango ha eretto anche la villa a due piani dove si celebrano battesimi e matrimoni. Una magione le cui mura bianche campeggiano in mezzo al fango.

 

Più in là una delle tante chiese evangeliche.  «Qui non crediamo al coronavirus, crediamo in Gesù», dice un ragazzo. Qui dove l’acqua corrente è un lusso a qualche metro dalle vetrine dei caffè e dagli hotel a cinque stelle. Qui dove restano gli ultimi d’Europa.