Quando ha saputo che nel Pd c’era chi l’aveva definito «aspirante capocorrente» è saltato sulla sedia protestando, fra l’altro, di avere «ben altre ambizioni» che non guidare una corrente, quale miseria. Così adesso c’è chi, sempre nel campo dem, è passato a supporre che Peppe Provenzano, vice segretario del Pd, già ministro del Sud nel governo Conte due, aspiri direttamente alla segreteria del partito democratico oggi retto da Enrico Letta. E volendo - a essere malevoli, ma si sa che il Pd è peggio di un covo di vipere - si può prendere come indizio il fatto che aspiri, di certo, anche lui, a un «nuovo partito democratico», come ha spiegato l’altro giorno alla festa di Articolo Uno, chiarendo che è ora di riunificare la sinistra che da Renzi si scisse, perché «forse le ragioni di quella divisione sono venute in parte meno», ed è ora di costruire, invece, «un messaggio nuovo di un campo nuovo» (sarebbe questo, lo diciamo per gli appassionati, il punto di caduta delle abbastanza misteriose Agorà democratiche volute da Letta).
Di certo come elemento comune che lo circonfonde vi è appunto questo: l’aspirazione, del resto legittima. Provenzano aspira, e come dargli torto. L’ha colto persino Dagospia che a inizio luglio, in uno dei suoi flash intitolati «grandi manovre» (pubblicati di norma per sgambettare, più che per esaltare), esplicitava un’altra sua aspirazione: quella a correre come governatore della Sicilia al prossimo turno elettorale. Raccontandola come cosa fatta, proprio nei giorni di massimo scontro attorno al nuovo capo dei 5 Stelle, figurarsi: «Letta e Conte hannno già le idee chiare sul candidato presidente. Sarà Provenzano, che metterebbe d’accordo anche i partiti di centro». Il veleno come sempre sta nei dettagli, giacché Provenzano - che un tempo, da portaborse dell’assessore regionale Luca Bianchi, quota Bersani, fece il giro dei poteri forti dell’Isola per accreditarsi come lo studioso del futuro - è l’alfiere degli accordi con la sinistra, della riunificazione appunto, la quintessenza del partito larghissimo grillini compresi, per altri versi il volto della subalternità ai 5 Stelle (copyright l’europarlamentare franceschiana Pina Picierno).
Direttamente dalla natìa sicilia (è di Milena, provincia di Caltanissetta), capibastone del Pd di vecchio conio con tipico fare da prima Repubblica, facendo notare che i politici teoretici stile Provenzano li chiamano «sucainchiostro», si chiedono tuttavia: «E chi lo vota?». È questa, va detto, la principale obiezione che si fa - da nord a sud, giovani e vecchi - a uno dei volti più nuovi e più in ascesa del Pd, benissimo inserito nel mondo che conta, mai in effetti misuratosi con le urne e con la fatica volgare di cercarsi i voti. La candidatura anzi astutamente la respinse, da orlandiano, nel 2018, in polemica coi metodi dell’allora segretario Matteo Renzi, che aveva inserito il suo nome al secondo posto dopo Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Salvatore (poi vincitrice con il proporzionale).
Il più giovane e il più immacolato volto che Nicola Zingaretti portò nel 2019 nel governo giallo-rosa, s’è svelato adesso però a sorpresa come un enigma - per il quale anche nei salotti-tempio della sinistra lo si comincia a guardare col sopracciglio alzato della delusione. Trentanove anni appena compiuti, figlio di un fabbro e di una maestra, laureato e dottorato al Sant’Anna di Pisa, vicedirettore dello Svimez, prediletto da una divinità del Pci migliorista come Emanuele Macaluso, in questi mesi da vice di Letta Provenzano è infatti riuscito misteriosamente a doppiare le perplessità che già l’avevano circondato per il suo operato un po’ deboluccio di ministro. Agguantando, ora, l’ultraterreno obiettivo (addirittura) di riunificare mondi che fra loro non si parlano, spesso nemmeno si conoscono, e che tuttavia su una cosa sono d’accordo: su Provenzano. Dove è passato lui, un disastro che nemmmeno Attila re degli Unni. Sul punto, unanimità formidabile, tanto che renzianamente lo si potrebbe ribattezzare: vicedisastro.
C’è come è noto il suo contributo nel ritiro dalla corsa in Calabria del dem designato Nicola Irto, che ha precipitato il Pd locale nel delirio e generato quasi due mesi di telenovela - gestiti a quel punto non più da Provenzano, prudentemente allontanato, ma direttamente dal responsabile enti locali Francesco Boccia; meno noto è il caos generato ad esempio in provincia di Avellino, dove la mano di Provenzano ha di fatto mandato all’aria un percorso lungo mesi per arrivare a una pacificazione interna tra i dem locali. Una situazione «paradossale e inspiegabile», ha detto la deluchiana, Rosa D’Amelio, sul Mattino, puntando il dito sul «Nazareno» e in specie proprio su Provenzano, che avrebbe «svolto un ruolo negativo»: «Quando era ministro ha già avuto atteggiamenti criticabili in occasione di una sua tappa in Irpinia, dimostrando scarso rispetto per il partito locale e per le rappresentazioni istituzionali. Su di lui ho maturato un giudizio pessimo, sotto il profilo politico».
Ecco, giudizi altrettanto lusinghieri vanno collezionandosi, non solo al sud, ma anche al nord, tra Torino e la provincia veneta. E persino a Bologna, dove nonostante i sorrisi il suo apporto non è considerato scintillante. Così come al sud, nella sua Sicilia, dove appunto già si ricorda l’azione non particolarmente incisiva svolta come ministro. Pronto ad assicurare il suo intervento, ad esempio quando si trattava di garantire la prosecuzione della sospensione dei versamenti tributari, ma altrettanto incline a scaricare poi la problematica sui gruppi parlamentari dem, piuttosto che caricarsela come ministro.
All’attività sul campo politico fa poi da correlato quella della convegnistica e dei social. Qui a giugno, in quindici giorni, Provenzano è ad esempio riuscito da un lato ad annunciare, durante una iniziativa organizzata da Gianni Cuperlo, la fine del capitalismo (il Foglio, che già lo chiamava «vicesegretario in quota Althusser», è passato a chiamarlo «corrente Mao»); dall’altro, ad armare via twitter lo scontro all’arma bianca contro gli economisti «ultras liberisti» Riccardo Puglisi e Carlo Stagnaro e contro Palazzo Chigi che li aveva chiamati come consulenti. «Ma aggiornare, se non le letture, le rubriche di alcuni consiglieri a Chigi?», ha scritto su twitter, come uscendo da se stesso e sdoppiandosi. Come se cioè lui stesso non fosse intrecciato mani piedi e nomine e agendine con Palazzo Chigi e gli altri centri di potere dem-istituzionali.
Chi lo conosce da prima di tutto ciò, sostiene che il suo errore campale sia stato passare direttamente dallo Svimez al ministero. Perché un conto è lo Svimez, un conto è il mondo reale. Un conto i centri di ricerca, un altro i partiti. E senza la dovuta “gradualità”, dicono, «nove volte su dieci le grandi promesse finiscono come nei talent, dove, visto che l’obiettivo è appunto lo show, tutto viene consumato in nove puntate». Mao non voglia.