Inasprire le pene non basta a fermare i responsabili delle persecuzioni. È ora di affrontare la violenza come si fa con la criminalità organizzata

Tra il primo agosto 2020 e il 31 luglio 2021 sono 105 le donne morte ammazzate da uomini che conoscevano, quasi una ogni tre giorni. Li chiamiamo femminicidi perché identificano uno specifico movente: chi li ha commessi rifiutava di accettare la libertà di scelta della donna in quanto tale.

In molti casi si trattava di morti annunciate, precedute da minacce chiare che le vittime avevano regolarmente denunciato, come nel caso di Vanessa Zappalà, la giovane di Acitrezza uccisa a colpi di pistola dall’ex fidanzato in mezzo alla folla. Prima di essere ammazzata, Vanessa aveva fatto tutto quello che la legge consente di fare a una vittima di persecuzione, riuscendo a far comminare al suo stalker persino gli arresti domiciliari.

Chi però agisce persecutoriamente all’interno di dinamiche patriarcali spesso non ha alcun rispetto per questo genere di limitazioni, che siano arresti extracarcerari o ordini di restrizione geografica, e infatti sovente li viola. Gli uomini che non gestiscono la perdita del controllo su una donna che ritengono loro proprietà perdono anche il senso del limite sul resto e non danno alcuna importanza alle conseguenze dei loro gesti, tanto è vero che spesso dopo aver ammazzato si uccidono a loro volta.

Esiste un modo per evitare questa mattanza annuale, che, diversamente dalle altre morti di criminalità comune, non accenna a diminuire e durante il lockdown è persino aumentata? La risposta è identica da anni: il femminicidio, cioè la morte delle donne per ragioni patriarcali, è il frutto di un clima culturale diffuso e sul lungo periodo si combatte solo con strumenti educativi contro gli stereotipi di genere, attraverso progetti nelle scuole sin dalla prima infanzia e leggi per abbattere la discriminazione delle donne in ogni ambito.

In Italia però, a fronte di una resistenza culturale fortissima anche politica sulla questione dei ruoli di genere, si è sempre preferito lasciare questa strada alla sensibilità occasionale e variabile delle realtà locali, scegliendo invece come via istituzionale quella dell’inasprimento delle pene alla fine della catena della violenza, cioè quando delle donne ci sono già i cadaveri.

La politica non riesce a cambiare questo orientamento nemmeno davanti all’evidenza che rischiare sei mesi in più o in meno di carcere non abbia alcuna rilevanza per uno che pur di ammazzarti è disposto a uccidersi a sua volta. Allora, se proprio si deve restare nell’approccio securitario, mi permetto di lanciare una provocazione: per quale motivo non trattiamo le denunce di stalking delle donne con gli stessi strumenti con i quali affrontiamo le persecuzioni di altra natura? Perché, davanti a minacce mortali, non riunire lo stesso comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica che agisce nei casi di minacce della criminalità organizzata, con il compito di valutare le informazioni degli investigatori sul reale pericolo di incolumità della donna denunciante?

Una donna che ha ricevuto minacce di morte si trova nella stessa condizione di insicurezza di un giornalista che fa inchieste scomode o di un imprenditore contro il pizzo: sta denunciando il pericolo che si corre in Italia come donna quando si cerca di sottrarsi a dinamiche di limitazione della propria libertà.

Al momento chiunque, dopo una valutazione specifica caso per caso, può ricevere forme di protezione che vanno dalla video sorveglianza dei luoghi di vita alla vigilanza di pattuglia, fino ad arrivare alla scorta nei casi più seri, ma in Italia questa procedura si attiva solo per terrorismo e criminalità organizzata. Anche il patriarcato è un fenomeno criminogeno, ma, a dispetto del numero costante di donne morte per la stessa ragione, non viene considerato un problema sociale della stessa gravità.

Sarebbe ora che lo fosse, in modo che si possano attivare subito gli strumenti esistenti per proteggere le vittime di persecuzione. Essere sorvegliata nei propri spostamenti non è la soluzione che nessuna donna vorrebbe, ma è l’unica rimasta nel breve periodo per evitare altre morti annunciate, almeno fino a quando la politica non compirà il salto evolutivo di fare le leggi per cambiare la mentalità che tutti i giorni genera (e giustifica) i carnefici.