De Amicis ha realizzato un’utopia: raccontare l’Italia come potrebbe essere e non è. E il saggio di Fois lo dimostra

È difficile scrivere di scuola perché tutti ci sono andati e tutti hanno una propria idea, mitizzata, in positivo o in negativo. È difficile anche perché, tutti coloro che hanno fatto esperienza sanno, consciamente o inconsciamente, che la scuola è stato il primo luogo dove si è imparato, senza che nessuno lo dicesse, per frequentazione, che la famiglia fondata sul sangue era una delle tante famiglie possibili, non l’unica. È difficile perché, pur non riflettendoci, si percepisce, entrando in un’aula scolastica, quanto il tentativo, forse ancora o parzialmente inattuato, della scuola pubblica sia stato, sia e, speriamo, sarà quello di diffondere concetti e prassi di uguaglianza, accordo sulle premesse nella discussione, senso del collettivo, e accettazione della differenza e della diversità.

 

Scrive Marcello Fois nel suo ultimo libro, che esce il 7 settembre per Einaudi: «La scuola allora ragionava in termini schematici ma efficaci (...), si imparava che c’è differenza tra autorità e autorevolezza, si imparava che la solidarietà richiede un pensiero che qualche volta non è spontaneo, ma che va costruito. Si imparava che la fatica è uno strumento di lavoro, non un deterrente. Si imparava che imbattersi in un’ingiustizia significava sapere che cosa si causava quando la si infliggeva, anche involontariamente, ad altri». Titolo del libro “L’invenzione degli italiani”, sottotitolo “Va dove ti porta Cuore”.

 

 

Il primo impulso leggendolo è correre a comprare - nel caso non si abbia nella propria libreria - il romanzo di De Amicis. Il secondo impulso è una domanda che, nonostante io sia ormai fuori tempo massimo e abbia incontrato nella mia vita eccellenti professoresse ed eccellenti professori, è: perché mai Fois non è stato il mio professore di letteratura italiana al liceo? Non all’università dove pure tiene corsi - ha, oltre romanzi saggi articoli e testi teatrali scritti, anche una formazione da italianista - o nelle scuole di scrittura - dove pure monta e smonta romanzi e racconti, ma proprio a scuola, alle scuole superiori. Nelle scuole pubbliche italiane. Non solo il mio professore, il professore di tutti, tipo il Maestro Manzi che aveva otto milioni di telespettatori-studenti (dei quali, si apprende leggendo questo libro, più di un milione e mezzo avevano raggiunto, dopo le sue lezioni e anche a tarda età, la licenza elementare).


Leggere questo libro è dunque, l’occasione di tornare tra i banchi di scuola e seguire i ragionamenti di un uomo che parte da Manzoni e arriva a Raffaella Carrà, passa per gli anime giapponesi e i magazine che si trovano dal parrucchiere (e speriamo sia così per sempre), raccoglie una frase di Papa Giovanni XXIII e dimostra come tutto - tutto questo materiale apparentemente eterogeneo - abbia il minimo comune multiplo uguale a “Cuore”, il romanzo di De Amicis. Il geniale utopista che racconta l’Italia come potrebbe essere e non è.

 

Il nucleo etico-politico del testo di Marcello Fois è che con “Cuore”, De Amicis, non solo abbia inventato il mito, anche deleterio e deresponsabilizzante, degli «italiani brava gente», ma abbia fatto con i modi di essere degli italiani - caratteri geografici e civili di teofrastesca memoria - ciò che Dante Alighieri ha fatto con l’italiano: lo ha inventato.


Prima di “Cuore” i sardi sacrificali, i fiorentini artisti, i campani col cuore in mano, i veneti introversi e semplici, i siculi figli della Provvidenza, non avrebbero potuto stare nella stessa classe e dunque nella stessa nazione. Senza Dante non avremmo l’italiano, senza De Amicis non avremmo gli italiani. «La classe è l’Italia fisica, gli alunni sono gli italiani, il maestro è l’italianità. In una accezione ciecamente paritaria, direi quasi pedantemente misurata, come può accadere solo nelle parabole, nella fiction, nella pubblicità e nella scienza».

 

Che Edmondo De Amicis abbia scientemente - perché questo dimostra Fois - costruito, per fornire una grammatica etico-civile, un diorama di nazione utilizzando un’aula scolastica e sia stato tanto abile da farne un manuale di comportamento e non una metafora, era una cosa che non solo non avevo capito, ma che non avrei mai immaginato. Gli scrittori utopisti, per me, avevano un altro aspetto, e raccontavano altre storie e invece, De Amicis è l’esempio di chi descrive - monta, giustifica, architetta - una utopia sì ma sul quotidiano. Non nel mondo a venire, ma in questo. «“Cuore” nasce per spostare sul buono l’indice della nazione percepita». Alla domanda cosa sia il libro “Cuore” risponde Fois (con una variazione dell’antifrastica sarda): «Sul piano prettamente stilistico “Cuore” si può affrontare attraverso tutto quello che non è. Non è un romanzo storico, non è un dramma, non è un testo comico, non è un romanzo psicologico... è utopico. Sul piano dei sapori, non è dolce, non è amaro, non è acre, non è salato. È umami».

Pare che Calvino abbia detto che i libri non debbano fare né piangere né ridere – la frase non l’ho mai trovata – che, insomma, il pianto e il riso non siano categorie critiche. Questo pamphlet però è ilare e commovente. È ilare perché in effetti leggendo la storia di Marco che per ricongiungersi alla madre percorre un tratto che copre dagli Appennini alle Ande, e poi giunge, davvero è Carramba, che sorpresa! ed è commovente perché ciascuno di noi ha avuto un maestro Perboni e in pagine bellissime, Marcello Fois racconta il suo, la sua scuola, la sua Sardegna, il ricongiungimento di una storia piccola con una storia più grande.

 

Non sempre, scrivendo, si riesce a fare della propria avventura umana, qualsiasi essa sia, a qualsiasi livello del tempo si collochi, una storia generale, addirittura collettiva, ma Marcello Fois ci riesce, leggero e puntuale, critico e comprensivo, allegro di quella allegria che sempre l’aver capito porta con sé.  onostante dica, partendo dalla descrizione che De Amicis fa del suo incontro con Manzoni, che a ciò che scrivono gli scrittori bisogna fare la tara, che agli scrittori non sempre bisogna credere, io penso che a questo scritto di Marcello Fois, come ad altri che ha firmato, bisogna credere. Che, in questo caso particolare, significa assumersi la responsabilità di vivere pensando di camminare e di votare in una Italia migliore di quella che ci vediamo intorno.