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Politica
settembre, 2021

Enrico Michetti, l’avvocato innamorato delle norme: chi è lo sconosciuto da cui dipendono le sorti del centrodestra

A Roma si gioca la partita più importante delle amministrative. Da dove viene il tribuno a cui Giorgia Meloni ha affidato il suo futuro

Fosse in competizione per il Guinness dei primati, anziché per l’elezione a sindaco della Capitale, non avrebbe rivali: Enrico Michetti, come lui nessuno mai. In questa campagna elettorale da Arrivano gli alieni, che a Roma è una via di mezzo tra il far west, la commedia all’italiana dei Nuovi mostri e i personaggi guzzantiani dell’Ottavo Nano, il candidato voluto dalla leader di Fdi Giorgia Meloni come faro del centrodestra unito incarna infatti lo Zeitgeist, è il crocevia di circostanze che ne fanno una sintesi vivente dello spirito del tempo.

In questo senso, il primo slogan che ha messo in campo (Michetti chi?) è solo un assaggio: magari fosse la notorietà, il tema. Così come è solo una punta dell’iceberg il suo definire il saluto romano «più igienico» in tempi di Covid-19, o quel confronto da cult con gli altri candidati che fece in mezzo all’estate, quando parlò dei «meravijosi» archi dell’acquedotto romano e, visibilmente impreparato sulla città di oggi, finì per andarsene: magari fosseno le gaffe, il problema.
Apparentemente nuovo ma in realtà maschera eterna della romanità trasversale, più gabinettista che candidato civico, avvocato come Giuseppe Conte ma abile nelle supercazzole ben più di Giuseppe Conte, detto «professore» in quanto docente a contratto all’università di Cassino, direttore della Gazzetta amministrativa, consulente esperto nella risoluzione di procedure amministrative complesse, appassionato di commi, procedure, testi unici, Michetti è l’uomo che pensa di affrontare il compito soverchio di guidare Roma brandendo l’egida luminosa della dea Norma e di suo figlio il Provvedimento, divinità che venera e sa maneggiare evidentemente più di qualsiasi visione politica, o soluzione spiccia, elementi entrambi che è stato sin qui del tutto incapace di articolare.

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Un burocrate senza colore, ma pieno di sé e sorridente («un bel signore», l’ha definito la signora Maria Elena, 91 anni, a Tiburtina), il sacerdote di una religione particolare per la quale - dice - «la burocrazia respira dalla visione che uno ha» e, quindi, il provvedimento porta dentro l’eco del sentimento di chi lo scrive: una specie di animismo dei fascicoli, insomma. L’opposto del tribuno radiofonico (della locale Radio Radio), estremista e fascistoide che ci si sarebbe immaginati: uno come lui, il Duce l’avrebbe definito semmai «travettista dicasteriale». Michetti si esalta davvero soltanto quando parla di «segmenti procedimentali», tipo sex appeal dell’inorganico, «perché il corretto esercizio del potere vien rappresentato nel momento in cui si crea un canale osmotico, perfettamente irrorato , tra colui che emana il provvedimento e i destinatari del provvedimento». Praticamente una pagina erotica.

 

Ed è con questo armamentario che si aggira per la Capitale, puntando al Campidoglio nel secondo azzardo di campagna elettorale,  cominciata a inizio agosto e ricominciata in questi giorni, in sordina, con prudenza. Gli hanno vietato di parlare di storia romana - se ne è lamentato apertamente domenica scorsa a Formello, dialogando alla kermesse “Itaca” con l’ex ministro centrista Mario Baccini. Gli è rimasto solo il suo grande amore: il fascicolo. Quali sono i primi provvedimenti che vorrebbe avviare? Bisognerebbe «ridurre a 7-8 i 174 regolamenti del comune». Priorità. Brividi.

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Significativa la distanza tra questo piglio e invece il valore politico della competizione. «Tutto passa da Roma», ha detto l’altro giorno il segretario dem Enrico Letta. Vale per il centrosinistra, ma anche di più per il centrodestra: è sul risultato di Michetti, e poi quello degli altri civici sparsi per l’Italia da Meloni-Salvini-Berlusconi, che si misurerà la tenuta e il disegno della coalizione, soprattutto per quel che riguarda i rapporti di forze tra Fratelli d’Italia e Lega: per lanciare l’opa sulla leadership del centrodestra, infatti, la leader di Fdi avrà bisogno di un risultato che confermi come il suo partito è molto più forte del Carroccio, nella realtà e non solo nei sondaggi. E un brutto risultato a Roma, da parte del candidato che proprio lei ha voluto, la indebolirebbe non poco nella corsa per Palazzo Chigi. Anche questo genere di competizione - giocata di fatto a perdere, più che a vincere - dice molto della politica contemporanea.

Michetti stesso, peraltro, calza come un guanto a rappresentare la quintessenza di gare - quelle per la carica di sindaco - dove i pretendenti scarseggiano: se fino a pochissimo tempo fa proporsi a guidare Roma era l’anticamera dell’upgrade politico - è stato così per Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, ad esempio - adesso la selezione è al contrario. Già trovare qualcuno disposto a rischiare di vincere (perdere è più rassicurante) è difficilissimo. A Roma lo si vede ancora meglio che altrove: all’avanguardia sul punto, la Capitale per dirne una ha mandato in tribunale gli ultimi tre sindaci, compresa l’attuale. Da primato. Ignazio Marino s’è dovuto pagare da solo gli avvocati, dopo la cacciata (il comune non ha ritenuto di doverlo difendere nel processo intentatogli dai Tredicine, che si dicevano danneggiati da una sua ordinanza), Gianni Alemanno è uscito solo ora, in Cassazione, assolto dall’accusa di corruzione, dopo sette anni (gli resta il processo per traffico di influenze). Anche per questo, l’attuale quaterna di candidati sembra composta di avventori del Bar di Guerre Stellari: Virginia Raggi, Roberto Gualtieri, Carlo Calenda ed Enrico Michetti.

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Dei quattro, Michetti era l’unico sconosciuto. Sorto come dal nulla: ma solo in apparenza. Ed è, anche questo, spirito del tempo: dopo l’«uno vale uno», c’è l’«uno vale uno» sedicente. Cioè si punta su personaggi che sembrano qualsiasi, ma che invece stavano lì da prima. È accaduto anche con Giuseppe Conte: adesso con Michetti la faccenda è persino più raffinata. Quando saltò fuori il suo nome, nell’intero centrodestra, nella Lega ma pure in Fdi, si diceva: vedrete, Meloni ora tira fuori il nome vero, perché questo Michetti è chiaramente una copertura, non si sa chi sia. Eppure il «professore» s’aggira per la politica romana sin dalla fine degli anni Ottanta. Solo dopo avrebbe messo su quel sistema trasversalissimo di rapporti che si intravede scorrendo la lista dei vari comitati tecnico scientifici attorno alla Gazzetta amministrativa (nomi come quello dell’ex magistrato Luca Palamara ma anche dell’avvocato Luca Petrucci, appena scomparso).
«Dicono “Michetti chi”, ma bisognerebbe dire “Raggi chi”. Determinato e ambizioso, lo conosco fin da ragazzo», ha svelato Lorenzo Cesa, l’ex segretario dell’Udc, andreottiano ciociaro, figlio d’arte del sindaco di Arcinazzo e «amico di antichissima data» di Michetti.

 

Lo ha ricordato anche il senatore centrista Antonio Saccone: «È merito di Michetti se ho cominciato a fare politica, all’università. Stavamo a Scienze politiche, nostro nume tutelare era Lorenzo Cesa». Fondarono anche una associazione, si chiamava Libertà e pensiero, il futuro avvocato amministrativista coniò lo slogan: «Vivremo lontani dai fasti e dai falsi valori, vivremo con la gente e per la gente, formeremo i giovani al credo di libertà e pensiero. Generosità, semplicità e fede: così noi cambieremo il mondo». Questo era «Michetti chi» nel 1990. Poco più che ventenne, vicino appunto a Cesa, quindi al ministro dei Lavori pubblici Gianni Prandini e all’area vasta degli sbardelliani, dal quartiere nativo di Colli Portuensi già coltivava il progetto di entrare al Comune, come consigliere. Brigava per diventre il numero uno dei giovani Dc romani: era quella la chiave per il Campidoglio, ma la mancò. Fallito il progetto, Michetti si era accordato, come diciamo premio di consolazione, per mandare uno dei suoi come delegato al congresso nazionale di Montecatini. Fatale gli fu il ritardo: nel giorno in cui si dovevano decidere i nomi dei delegati, una domenica, arrivò tardi all’appuntamento davanti al portone di piazza Nicosia.

 

Gli altri giovani Dc, trovando il palazzo chiuso e non avendo le chiavi per entrare, si erano nel frattempo riuniti in una sala trovata nei pressi della chiesa di San Lorenzo in Lucina. Non c’erano i telefonini, nessuno l’avvertì: quando alla fine Michetti trovò i suoi “colleghi”, i delegati erano stati già decisi, e gli assenti (cioè lui) erano stati esclusi. La sua furia rimase proverbiale: rissa sfiorata, timore diffuso di una vendetta successiva (aveva fama di boxeur). Sarà per questo che il candidato del centrodestra è adesso così mite? Di certo il suo modo di fare riflette qualcosa di più profondo, un classico per gli sbardelliani: ostentazione di pacatezza e buone maniere. Come a dire: sono di destra, ma so stare a tavola.


Per la tacita disperazione del suo apparato comunicativo (guidato da Francesco Kamel), infatti, Michetti non polemizza, non replica, non dice. Adora i bagni di folla, abbraccia e bacia tutti, si interessa, si informa, ama l’acqua «frizzantina» e se vede per strada un ciuffo di ortica avverte i passanti: «Occhio: raspa». Affabile e vago. Questione rifiuti? «Io credo che Roma abbia bisogno di impianti»; conflitti sul punto tra comune e regione? «Serve la collaborazione tra enti»; parcheggio selvaggio dei monopattini? «Servono regole chiare e controlli rigorosi». Per la sicurezza? «Serve un tavolo permanente, una volta a settimana, dove fare il punto della situazione». Insomma la strategia è: «Serve fare qualcosa». Imbarazzante a farci caso, ma nessuno ci fa caso nel caos di Roma, un posto dove si fa lo slalom tra cinghiali (Roma Nord) e carcasse di gabbiani (pieno centro), e le strisce pedonali magari te le dipingi da solo (San Basilio). Così, più alto di tutti nei sondaggi (anche se in discesa) Michetti passeggia spensierato - mica deve vincere - e tronfio per tutta Roma, tra le polemiche sulla candidata antisemita e no vax Francesca Benevento e quelle attorno all’ultras tatuatore Francesco Cuomo (in lista con Fdi), progettando già di dare seguito a questo primo salto in politica (dietro la porta ci sono le regionali, ma anche le politiche: un seggio all’ex candidato sindaco sarà difficile negarlo e intanto immagina di realizzare il sogno di quando aveva vent’anni: entrare in Comune.

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«Mi piace l’idea che uno passeggia per strada, vede qualcosa che non va, e quando torna in ufficio si infuria come una bestia», chiacchierava l’altro giorno a Casal Bruciato con uno dei suoi sponsor politici, Paolo Trancassini. Coordinatore regionale di Fdi, per quattro volte sindaco di Leonessa, provincia di Rieti, Trancassini aveva portato Michetti (che fra le mille consulenze ha anche quella del comune di Rieti) a organizzare un corso di formazione per i Fratelli d’Italia nella sede nazionale di via della Scrofa già in primavera. Prima cioè che il suo nome spuntasse per la corsa romana. «Trancassini e Arianna, la sorella di Giorgia Meloni, l’hanno ascoltato per radio e sono rimasti conquistati», si era affrettato a raccontare ai giornali a giugno il direttore editoriale di Radio Radio, Ilario Di Giovambattista, nel più stretto inner circle di Michetti, felice di lanciare il supposto “tribuno” dopo averlo allevato per sei anni sulle frequenze.


Ma è da ben prima che Michetti si aggira, da consulente, nei palazzi: anche in Regione Lazio dove appunto lavora da vent’anni la sorella di Giorgia Meloni, il “professore” si affacciò la prima volta ai tempi di Piero Marrazzo. Dopo la fine della Dc, infatti, s’era buttato sulla cerchia rutelliana: ottimi erano i suoi rapporti con Bruno Astorre, oggi segretario regionale del Pd, e all’epoca assessore e poi presidente del consiglio alla Pisana. Quando alla Regione Lazio (e non solo) Michetti aveva cominciato a portare corsi di formazione, supporto tecnico e tantissimi abbonamenti alla sua rivista (sul tutto stanno dando un’occhiata Corte dei conti e Anac, ha raccontato Domani).


Non è ancora chiaro se Giorgia Meloni, che a quanto dicono ha scelto il «tribuno di Radio Radio» anche per scartare dalla corsa il fratello d’Italia Fabio Rampelli, abbia compreso fino in fondo chi ha lanciato alla conquista del Campidoglio. Certo non è un caso avergli messo accanto in pieno agosto, stile squadra di soccorso come ha segnalato il Foglio, figure come quella di Luigi Di Gregorio, professore alla Luiss che costruì le campagne elettorali vincenti di Alemanno e di Polverini. Ed è vero che la leader a Michetti sta sempre più incollata, gli fa maternage politico, risponde talvolta al posto suo, si mostra entusiasta e, come l’altro giorno alla presentazione della lista di Fratelli d’Italia al quartiere dell’Eur, riesce ad ascoltare l’intero intervento del candidato sindaco. Con il volto ostentatamente inespressivo, annuendo professionale di tanto in tanto. Persino quando lui si attarda in una delle sue specialità: tuonare circa il pieno rispetto della legge 241 del ’90, in particolare sui tempi di risposta della pubblica amministrazione. Un testo pressoché sacro, che Michetti sa recitare a memoria e rievoca con un solo fiato: «Laduecentoquarantunodelnovanta». Il suo vero obiettivo da sindaco, si sospetta. Come se fosse Antani.

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