Ferragosto 2021 nelle campagne di Viterbo. Trenta ettari di pascolo diventano un caso nazionale. I social in tilt, le voci corrono: due vittime, una inventata e una vera. Cani morti di sete e pecore macellate. Decine di migliaia di giovani provenienti da tutta Europa dagli sguardi persi, corpi barcollanti in gravi stati di alterazione. Alcol, droghe, il solito mix di quelli che non dormono. Cittadini spaventati dal Covid-19. Le forze dell’ordine? Assenti. E una domanda ricorrente: perché nessuno ha messo fine a tutto questo? Tutto questo, cioè: un rave. Un rave illegale al lago di Mezzano, vicino a Viterbo, sei giorni di estasi totale e di irresponsabilità crudele, in piena pandemia.
Cambio di scena: il Museion di Bolzano, centro di arte contemporanea dell’Alto Adige, ospita il Festival Transart (fino al 24 settembre), una celebrazione multidisciplinare della diversità culturale. Musica, danza, cinema, performance. Vent’anni di festival durante i quali l’arte contemporanea è stata democratizzata, come spiega il direttore Peter Paul Kainrath. Provenendo lui stesso da un contesto di musica classica, Kainrath vuole dare ai visitatori internazionali e locali una visione ampia delle ricchezza, della varietà che si trova nel mondo dell’arte.
Il tema del festival edizione 2021 sorprende: un omaggio alla cultura rave. Come a Viterbo? No di certo. Transart 2021 fa riferimento ai club leggendari di Berlino, il Tresor (ormai chiuso) e il Berghain. Spazi conosciuti per i loro sound system penetranti, i loro buttafuori spietati e anche, va detto, per alcuni decessi. Come la turista americana Jenifer, morta nel 2018 per un’overdose di Mdma: nessuno chiamò l’ambulanza perché se si muore, si muore fuori dal club, fuori dal rave.
“To rave” significa delirare. Trovare altri stati di coscienza. È la fuga da ogni controllo sociale e da una realtà virtuale, solitaria. Ancor più in pandemia.
Per la durata di un rave le regole del quotidiano non si applicano più. Il rave vive del semi-legale, dell’occulto, del passaparola. Da un punto di vista musicale la techno deriva dal funk afro-americano di Detroit e dall’elettropop tedesco. Ci rimanda agli anni Ottanta, a strutture industriali abbandonate in cui sintetizzatore e ritmi ridondanti creavano il soundtrack del futuro. Un’utopia per opporsi alla società capitalista americana, liberazione totale con carburanti come ecstasy, Lsd, ketamine, cocaina, Ghb.
L’onda si riversa in Europa, a Berlino. Siamo nel 1990. Il muro è appena caduto, lasciando ampi terreni abbandonati e deserti in mezzo alla città, là dove il muro tagliava in due il mondo, residui di una guerra tra civiltà e nichilismo che non ha visto equivalente, congelati dalla Guerra fredda. Una sensazione tra gioia, confusione e mancanza di leggi. In mezzo a questo: i giovani. Quelli dell’Est e quelli dell’Ovest, riuniti improvvisamente. L’unico legame tra loro la musica, un luogo sicuro in cui ingiustizie e fraintendimenti non riescono a penetrare.
Un giorno tre di questi ragazzi trovano per caso una cantina che apparteneva ad una banca, in mezzo al nulla tra il Checkpoint Charlie e il fiume Sprea. Scendono una scala sgangherata, e dietro un angolo si ritrovano davanti alle sbarre di una cassaforte. Poche settimane dopo nasce il Tresor Club, tempio della musica techno che fa sanguinare i timpani. Quando è pieno, il sudore gocciola dal soffitto. Corpi intrecciati dal venerdì al lunedì, dj che suonano con un ossigenatore per poter resistere. Una sensazione che nessuno riesce a descrivere. Un miscuglio tra macchine e corpi umani, un ambiente contraddittorio tra rinascita dalle ceneri e apocalissi. Una cultura multicolore e completamente fuori di testa.
Bart van der Heide, direttore di Museion dal 2020, proviene della comunità techno. Il suo obiettivo per il museo è uscire dalla crisi d’identità nella quale si trovano la maggior parte dei musei e farne una roccaforte per la ricerca di legittimità delle scienze umane. Per questo non solo ha coinvolto la rete dell’artista Isabel Lewis, ma ha anche curato l’esposizione Techno Humanities, un’iniziativa che indaga il rapporto tra umanità e tecnologia.
Questo percorso sperimentale è possibile perché Museion è un luogo culturale giovane che gli permette di lasciare un’impronta personale. «Sto provando a staccare la cultura rave dal contesto storico. Ne voglio fare una lente attraverso cui riflettere sul presente», dice.
La techno, secondo van der Heide, riflette la precarietà della forza lavoro di oggi; in essa egli vede rappresentati tutti i problemi del presente. Ma anche il mondo techno conosce le disparità: solo l’1 per cento di coloro che ne fanno parte si arricchiscono. «Il centro del mainstream sta a Las Vegas. È un’industria da miliardi di dollari».
Se gli chiedi di Viterbo, fa una smorfia impercettibile. Van der Heide non vuole parlare di rave illegali ma vuole scrivere i valori fondamentali della cultura rave attraverso emozioni molto delicate, curate con finezza nella struttura architettonica futuristica del Museo. «La techno per me va oltre la sottocultura. Si tratta di una liberazione assoluta dell’ego». Van der Heide fa un paragone con altre sottoculture. «Prendiamo l’esempio del punk. Il punk si deve vivere ogni giorno, sette giorni alla settimana. Non c’è una realtà oltre quella punk. La cultura rave invece permette tre giorni in cui si vive la libertà, un momento di rilassamento. Poi si riprende il ritmo frenetico del nostro tempo. È la sottocultura dei freelance». “Techno humanities” riprende le tre tematiche principali della cultura rave: “freedom” (libertà), “compression“(compressione), “exhaustion” (esaurimento). Una sensazione comparabile a quella che hanno vissuto i giovani del Tresor Club.