Roma
I Casamonica sono una cosca: la lezione che arriva dalla Capitale
Il tribunale, diversamente da quanto accaduto per Buzzi e Carminati, riconosce che il clan sinti è mafia, come i Fasciani e gli Spada. Ma quando si colpiranno i complici nei palazzi?
Il funerale del padrino nella chiesa di Don Bosco, i petali, la carrozza e gli elicotteri. Il raid al Roxy Bar della Romanina come manifestazione di forza.
Due episodi, che al pari della testata di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi, a Ostia, hanno acceso l’interesse nazionale intorno al clan sinti che, in solitudine, fino ad allora solo alcuni cronisti, pesantemente minacciati, avevano raccontato, stimolando indagini giudiziarie che non avevano mai conquistato la ribalta, segnando più volte verdetti controversi e di segno opposto. Come del resto era accaduto anche per il clan Fasciani, il più antico e radicato sodalizio mafioso della capitale che riconduce in linea diretta all’epopea dello sbarco sulla costa laziale dei gruppi siciliani legati ai Caruana Cuntrera.
La mafia di Roma, ora riconosciuta in sentenza anche per i Casamonica, però non si esaurisce nei tre gruppi più noti. Resta intatto il tema del collegamento del crimine organizzato con i centri di spesa e di potere dell’amministrazione pubblica. Le consolidate certezze sul punto datano alla presenza su Roma di Mario Aglialoro, alias Pippo Calò, all’incrocio tra mafia, servizi, eversione nera, centrali del riciclaggio di denaro sporco, Vaticano e Banda della Magliana.
La Procura di Roma aveva provato ad aggiornare il database nell’impianto d’accusa del Mondo di Mezzo, ovvero l’ordinanza dal quale è disceso il processo Mafia Capitale, smentito in premessa dal verdetto giudiziario. Lì non c’era mafia e la violenza, l’assoggettamento, il controllo di porzioni di territorio non fisico ma metaforico, come il flusso di spesa per il sistema di alcune cooperative, a parere dei giudici, non configura il profilo tipico del 416 bis.
Diversa la valutazione per i Casamonica che pure hanno potuto crescere ed espandersi forti di un radicamento criminale e una rete di relazioni che ne ha fatto dei partner d’affari anche nel modo della cosiddetta economia legale.
Licenze, permessi, abusi tollerati, tappeti rossi in banca, sono solo alcuni degli aspetti della fisionomia di un clan che ha potuto vivere e prosperare in relativa tranquillità conquistando pezzi di città e imponendo regole e leggi. L’usura come formidabile strumento di proselitismo e ampliamento del proprio raggio di relazioni è la caratteristica principale di un gruppo che tra i propri clienti annoverava anche pezzi della società civile, costretti dal bisogno a entrare in relazione con i boss ma spesso anche distratti e accomodanti nel riconoscere il lato oscuro dei munifici prestatori di quattrini sia pure a interessi stellari. Difficile immaginare che il moltiplicarsi di investimenti di camorra e ‘ndrangheta, per esempio nel settore della distribuzione e della ristorazione, siano esenti da nulla osta compiacenti.
Ha ragione il magistrato Alfonso Sabella che attribuisce importanza alla sentenza sui Casamonica ma sulla Stampa, “da cittadino” precisa di ”non considerarla fondamentale”. Un’apparente contraddizione che l’ex pm antimafia palermitano e assessore alla legalità della giunta Marino risolve così: “Se tutto dipende dalle sentenze giudiziarie si finisce per sopravalutarle dal punto di vista sociale”. Una sentenza, insomma, è frutto di innumerevoli variabili, non ultimi gli orientamenti dei collegi, i venti cangianti della giurisprudenza, un certo condizionamento di luogo e di tempo che fa oscillare i giudizi, la qualità delle prove raccolte, la solidità del lavoro condotto. Diversa quella che, sempre nell’intervista a caldo, Sabella chiama la “consapevolezza autonoma” della società civile.
Nel sollievo con il quale è stato accolto il declassamento a corruzione del Mondo di Mezzo rispetto allo spettro infamante della mafia, si è intravista una deresponsabilizzazione della società civile della Capitale rispetto al rischio criminale, quasi che la corruzione non fosse l’evoluzione proteiforme del condizionamento anche mafioso sulle pubbliche amministrazioni e la politica.
Più immediata e forse anche più efficace è per questo un’altra considerazione. È sempre di Sabella ma non sta in quell’intervista sulla Stampa. Tuttavia in fondo la riassume: “Sopra la quinta elementare, per mafia non si condanna nessuno”. Non sempre vero ma abbastanza.