Cultura
settembre, 2021

«Il nostro dibattito sulla cancel culture? È troppo semplicistico e manicheo»

In Europa affrontiamo l’argomento in termini binari, decontestualizzati dalla traiettoria statunitense. Ma ci sono precise ragioni storiche che spesso sottovalutiamo e da cui nascono poi gli eccessi. Parla Mario Del Pero, professore di Science Po, che fa il punto sulla polemica sulla sinistra illiberale aperta dall’Economist

«Il dibattito in Europa e in Italia è troppo semplicistico, funzionale agli interessi di singoli. Non riesce a tenere conto delle tante variabili necessarie ad avere una lucida analisi». Mario Del Pero, professore di storia internazionale e statunitense a Science Po, prova a fare chiarezza sulla confusione che regna attorno ai temi della “sinistra illiberale” e della cancel culture. «Sono tre i capisaldi da tenere a mente: il riconoscimento degli eccessi da parte della cultura woke (ovvero l’allerta alle ingiustizie e discriminazioni razziali e sociali, ndr), le motivazioni storiche che ne sono alla base, e la contro-reazione che ne scaturisce».

 

Da qualche giorno si è aperto un dibattito sulla “sinistra illiberale”, dopo la copertina dedicatagli dall’Economist. Da professore di storia statunitense a Parigi, come si pone sull’argomento?

Innanzitutto, la discussione, in Italia come in Francia, viene portata avanti in maniera molto schematizzata, in termini binari e decontestualizzati dalla traiettoria storica statunitense. Ci sono evidenti eccessi woke, ne abbiamo molteplici esempi, anche caricaturali.

 

Che ripercussioni hanno questi eccessi sull’insegnamento?

Io insegno in un’università internazionale, che in alcuni campus ha più della metà degli studenti nordamericani, dunque vedo molto bene come tutto ciò incide sulla maniera di porci in aula. Mi è capitato per esempio di accostare l’aggettivo “sexy” alla tesi di dottorato di Condoleeza Rice, in quanto l’argomento della sua tesi di dottorato, scienza politica militare in senso stretto del termine, non era accattivante. Un gruppo di tre studentesse mandò allora una mail di protesta in cui sostenevano non fosse giusto accostare questo aggettivo alla prima donna afroamericana Segretaria di stato. Trovai l’episodio bizzarro perché gli statunitensi sanno perfettamente quali accezioni può avere il termine.

 

Come trovare dunque il compromesso?

Essere sensibilizzati e fare i conti con un linguaggio che noi diamo per scontato, e che invece porta con sé un carico di implicazioni, va bene. Il problema è che molto spesso si va oltre. Io insegno in piccoli seminari o lezioni con 400 studenti. Dopo due ore la battuta serve a far risposare tutti. Ma la battuta è per forza caricatura, e nel clima di oggi sembra che tutte siano scorrette. Il risultato è che non si scherza più in aula. Dall’altro lato, però, bisogna sempre considerare che l’azione estrema che spesso sfocia in radicalismo per i temi legati alla razza e al genere non è nata nel vuoto perché un po’ di studenti sono andati fuori di testa. Ma perché nella storia europea e, in particolare, statunitense, tali discriminazioni di razza e di genere hanno segnato e marchiato ab origine quella stessa storia.

 

 

 

Con il rischio di ignorare o sorvolare su tali discriminazioni

Esatto. Noi tutti ricordiamo Disney che censura i film, ma non prestiamo alcuna attenzione a quello che fanno tanti Stati nel controllare i libri di testo nelle scuole superiori. Basta vedere le risoluzioni del governo del Texas: si insegna nel 2021 come se fosse il 1920. Quando Disney mette mano a Dumbo e in Italia si levano voci sdegnate, non si nota che la scena in questione rappresenta quattro corvacci con l’accento afroamericano sovraccaricato che prendono il giro l’elefante. Uno di questi si chiama Jim crow, che dà nome al sistema segregazionista tra fine ‘800 e ‘900. È come se ci fosse un cartone ‘40 che mostra stereotipi antisemiti, come un ebreo col naso adunco, speculatore.

 

Tutto ciò con un’informazione non sempre abile, e volenterosa, di cogliere queste sfumature

Mi è capitato tempo fa di vedere sul Tg2 un servizio sulla Howard University, in cui una giornalista diceva una marea di sciocchezze: il messaggio era che “l’Università dei neri ha bandito gli studi classici perché considerano Socrate e Cicerone dei suprematisti bianchi. La dimostrazione è che il dipartimento di studi classici stava chiudendo”. La verità è che La Howard University propone oggi degli studi, come gli african american studies, che attirano di più gli studenti rispetto alle materie classiche. Nel contesto di una crisi generale delle discipline umanistiche, il dipartimento è stato chiuso e i corsi sono stati spalmati, non c’entra niente il suprematismo bianco.

 

In Francia poi si discute molto dell’ingresso di queste idee: porre l’accento sulla discriminazione razziale e, ancor più, religiosa, aprirebbe un vaso ricolmo di critiche, presa di coscienza e protesta contro la disuguaglianza. Con un secondo rischio: che queste esagerazioni vengano cavalcate dall’estremo opposto. Éric Zemmour, che paventa “la grande sostituzione della razza bianca”, ne è l’esempio più eclatante

Parigi è una città segregata, che ha provato negli ultimi 20/30 anni a superare un sistema molto marcato, derivato dalle ondate migratorie nel dopoguerra. Anche la mia università ha attivato da vent’anni a questa parte una procedura di ammissione privilegiata per persone che provengono da zone svantaggiate, una sorta di discriminazione positiva.
Ma anche questo ovviamente ha generato tensioni, perché va contro l’idea di meritocrazia come unico criterio, tipica della Repubblica francese. La Francia in ogni caso deve fare i conti con il passato, perché ancora oggi la discriminazione razziale è un tabu. Anche per evitare che le conseguenze negative di queste discriminazioni, dal terrorismo alla mancanza di sicurezza, vengano sfruttate dai Zemmour di turno. Il primo risvolto positivo per questi personaggi è la possibilità di non fare i conti con elementi reali e problemi che poi generano queste reazioni, sfruttate tendenziosamente per poter affermare di “dar voce a chi è oppresso”. 

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