Si chiama “Fiḍālat al-Khiwān fī Ṭayyibāt al-Ṭaʿām wa-l-Alwān”, cioè, nella traduzione inglese appena pubblicata da Brill, “Best of Delectable Foods and Dishes from al-Andalus and al-Maghrib”. Ma questa raccolta dei “migliori cibi e ricette dal Maghreb e dall'Andalusia” non è opera di uno chef alla moda: è un manoscritto del tredicesimo secolo importante per gli arabisti quanto Apicio lo è per gli amanti dell'antica cucina romana. L'autore, l'andaluso Ibn Razīn al-Tujībī, ha scritto poesie, prose e una storia delle Crociate che sono andate perdute: è rimasto solo questo monumento alla cucina perduta dell'Andalusia, che ora arriva ad un'edizione degna della sua importanza grazie a Nawal Nasrallah.
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Nata a Baghdad ma americana da molti anni, Nasrallah traduce dall'arabo, insegna letteratura inglese ed è tra i massimi esperti di cucina araba antica e moderna. Non per niente questo dotto volume di 900 pagine, arricchito da magnifiche illustrazioni trovate in manoscritti sparsi per le biblioteche del mondo, si chiude con ventiquattro ricette adattate alla cucina moderna. Che permettono di finire la lettura gustando "Isfanākh Maṭbūkh" (spinaci alle mandorle) e "Aqrāṣ Samak" (polpette di pesce), "Tharīda Tuzīd fī l-Bāh" (pollo afrodisiaco) e biscotti ripieni chiamati “zampe di gazzella”. Un modo per imparare mangiando quanto il mondo arabo sia stato, e sia ancora oggi, vicino a noi.
Il libro, come ha sottolineato la rivista Arablit, è davvero una chicca: perché si basa, oltre che su due manoscritti incompleti già noti conservati a Madrid e Berlino, su uno nuovo, integro, scoperto dalla curatrice alla British Library. È la prima traduzione in inglese ma non la prima in Europa: segnalato all'inizio del Novecento, e pubblicato in arabo nel 1981, era già stato tradotto in francese nel 1992 e in spagnolo nel 2007.
È facile prevedere però che questa traduzione in inglese, curata da una studiosa molto nota tra i foodblogger americani e accurata al punto da farne una enciclopedia della cucina araba, servirà a dare al “Fidalat” il posto che merita nella storia della cultura e nelle cucine più alla moda. Le appendici contengono un'elenco ragionato e illlustrato di spezie, piante, conserve, metodi di cottura, utensili, forni e fornelli (simili a molte preparazioni di altre epoche storiche e di altre zone del Mediterraneo) che ne fanno un'enciclopedia indispensabile non solo per chi si occupa di cucina, per studio o per passione. Non per niente il volume esce nella prestigiosa collana di Islamic History and Civilization.
Nato in Spagna, nella Murcia andalusa, Ibn Razīn al-Tujībī, fuggì in Africa a vent'anni, appena i cattolici vincitori si rimangiarono, dopo soli cinque anni, la promessa di tolleranza religiosa fatta dopo la vittoria del 1242. Molti anni dopo, a Tunisi, compone questa sua opera che, scrive Nasrallah, nasce perché «una cucina che amava rischiava di essere dimenticata, a causa delle migliaia di concittadini che, come lui, fuggivano dall'Andalusia». E in Spagna, mantenere la tradizione culinaria significava rischiare la morte. Il cibo era una spia della provenienza: mangiare seduti per terra e condividere il cuscus era un pericoloso segno di origini musulmane, e una donna rischiò la forca solo perché preferiva cucinare con l'olio invece che con il grasso di maiale.
Anche se si basa su testi precedenti, scrive al-Tujībī, il libro «include molte ricette che ho approvato e diverse che ho creato io stesso. La maggioranza sono andaluse: solo poche vengono dal Magreb, e solo le migliori tra loro». In tutto sono 475, divise per capitoli in base all'ingrediente principale: carne di quadrupedi e di polli e volatili, pesce e uova, latticini, e un lungo capitolo sulle verdure (melanzane, carciofi, tartufi del deserto, “orecchie d'elefante”...), dolci, conserve trucchi per cuochi abituati a fronteggiare emergenze: «Come fare l'olio se non ci sono olive» o «Rimedi per il cibo troppo salato e per carne che ha cattivo odore».
Alcuni piatti ricordano ricette che conosciamo bene, altri fanno venire l'acquolina in bocca per accostamenti o metodi di cottura, altri fanno francamente orrore. C'è l'antenato del supplì (le “muḥammaṣ”, polpettine di pasta cotti al sole), ci sono salsicce chiamate laqāniq (che ricordano la luganega), ci sono 27 versioni del "Tharīd", una zuppa di pane con brodo verdure e carne che ricorda la ribollita, e poi antenati medievali di pilastri della world-cuisine come cuscus, harissa, quba.
Nasrallah nota che «solo in questo libro si trovano ricette per cuocere il tonno al sale chiamato mushammaʿ che è oggi la deliziosa “mojama” spagnola», e il mitico Ṣinhājī, antentato berbero della “olla podrida”. I “raʾs maymūn” , dolci a forma di testa umana decorati con pinoli mandorle e pistacchi , ricordano i biscotti a forma di teschio che deliziano ancora oggi i patiti di Halloween...
Forse dovremmo dire che gli arabi avevano precorso i tempi nel cercare alimenti di vario genere in vista della scarsità di cibo che ci minaccia per la sovrappopolazione mondiale (per non parlare dell'arte di lavarsi le mani imposta dalla pandemia: l'ultimo capitolo elenca otto metodi per lavarle alla fine del pasto, usando prodotti costosi e raffinati fino all'umile farina di ceci). La necessità di mangiare insetti era meno lontana per chi abitava ai bordi del deserto o nelle oasi: ecco quindi un capitolo che mette sullo stesso piano gamberi d'acqua dolce, lumache e cavallette (al-Tujībī, le consiglia bollite o fritte) oltre ai qunilyāt, topi selvatici europei.
Una curiosità è che questa cucina è tutta, per forza di cose, “in bianco”. Anni fa un libro di ricette cercò di ricostruire com'era la cucina napoletana prima che dall'America arrivasse l'ormai onnipresente pomodoro. Lo stesso vale per questa raccolta del tredicesimo secolo. E del resto, quando si parla di cucina di Al Andalus non potrebbe essere diversamente: il dominio arabo finì nel 1492, lo stesso anno della scoperta dell'America (e della cacciata degli ebrei dalla Spagna, e della morte di Lorenzo il Magnifico). Quindi di pomodoro non poteva essercene nemmeno l'ombra.